Se le radici del pop psichedelico sono sicuramente ben piantate nella cultura degli anni Sessanta, con band quali Beatles, Beach Boys, Zombies, i primissimi Pink Floyd e Love a farla da padrone, è indubbio che alcuni dei momenti più magici di questo sottogenere della grande famiglia pop siano stati pubblicati nei decenni successivi. Negli anni Ottanta, in cui il revival psichedelico ebbe uno dei suoi picchi (si pensi, ad esempio, al movimento del Paisley Underground), quelle sonorità in bilico tra visioni lisergiche e rapimenti melodici iniziarono a stuzzicare la fantasia anche di Stephen Tunney, un musicista originario del Bronx (vi era nato, infatti, nel 1959) che, col nome d'arte di Dogbowl, registrò “Cyclops Nuclear Submarine Captain”, un capolavoro di surreale pop psichedelico che vide la luce durante l'ormai leggendario 1991.
You hit me over my head
When I lay my eyes on you
Tunney era stato battezzato musicalmente all’età di quattro anni, quando i genitori lo portarono al drive-in per fargli vedere "A Hard Day's Night", il primo film con i Beatles protagonisti. Un’altra band colpì molto la sua immaginazione furono i Monkees, perché, sono parole sue, “avevano un modo di presentare la musica facendo leva anche sull’impatto visivo, secondo quanto insegnato dai fratelli Marx, che utilizzavano rappresentazioni comiche del fare musica come parti importanti dei loro film (Harpo e l'arpa, Chico e il pianoforte, Groucho come cantante – per quanto mi riguarda, i fratelli Marx erano dei veri punk rocker!).” Dopo aver provato, senza molto entusiasmo, a suonare la tromba, Tunney passò alla chitarra, lo strumento con cui avrebbe cominciato a mettere giù le sue prime idee musicali.
Nel 1977, dopo aver letto un articolo in cui si parlava di Johnny Rotten, ascoltò “Never Mind The Bollocks” dei Sex Pistols e vi riconobbe, disse, "il suono della rivoluzione". Così, iniziò a suonare in un gruppo punk, armeggiando con i tre-accordi-tre d’ordinanza nel tentativo di scrivere le sue prime canzoni, costruite “su semplici progressioni di accordi”. Non riuscì esattamente nell’impresa di tirare fuori qualcosa di memorabile, perciò, a un certo punto, mollò la presa e guardò altrove. Nel 1986, dopo aver scelto il nome di battaglia Dogbowl (“Nacque tutto per caso. Stavo assegnando dei nomi ridicoli ai membri di una delle mie prime band e uno dei musicisti mi chiese: ‘Ok, e quale sarà il tuo nome ridicolo?’. Ricordo che sul pavimento della sala prove c'era una ciotola per cani [dogbowl], così ho detto: ‘Dogbowl, il mio nome sarà Dogbowl!’. Nel bene e nel male, mi è rimasto impresso. La gente si ricordava di quel nome, perché Stephen Tunney non era così semplice da memorizzare”)... dopo aver scelto il nome di battaglia Dogbwol, dunque, Tunney entrò a far parte, in qualità di chitarrista, della prima formazione dei King Missile (quella il cui nome aveva ancora tra parentesi "Dog Fly Religion"), contribuendo alla realizzazione di “Fluting On The Hump (1987) e “They” (1988), dischi usciti su Shimmy-Disc e capaci di sintetizzare, con piglio, manco a dirlo, surreale, indie-rock, anti-folk, psichedelia, garage-rock e quant’altro.
Terminata quell’avventura, Tunney restò in buoni rapporti con il proprietario della Shimmy-Disc, Kramer (nato Stephen Michael Bonner), un altro grande outsider della sperimentazione psichedelica, che gestiva anche lo studio di registrazione Noise New York. Supportato dal genialoide produttore, il Nostro esordì in proprio con “Tit! (An Opera)” (1989), un concentrato di obliquo pop psichedelico giunto da qualche lontano pianeta i cui abitanti ascoltano tutto il santo giorno Syd Barrett, Frank Zappa, The Bonzo Dog Doo-Dah Band, They Might Be Giants, Kevin Ayers e Julian Cope. Si trattava, insomma, già di un lavoro eccellente, ma il grande colpo sarebbe arrivato due anni dopo con la giostra psych-pop di “Cyclops Nuclear Submarine Captain”, il cui titolo faceva, tra le altre cose, riferimento al personaggio mitologico del Ciclope: “Mi sono sempre piaciuti i casi in cui la mitologia greca è entrata in rotta di collisione con la cultura popolare, così come ho sempre apprezzato il personaggio del Ciclope, come una sorta di personaggio goffo e terrificante. Sono sempre stato un grande fan sia del Nautilus di Jules Verne, che di ‘Yellow Submarine’ dei Beatles e mi piace l'idea di un tema simile da sviscerare in un disco. Ma è anche divertente dare a un disco un titolo lungo e assurdo.”
A influenzare le storie surreali cantate da Tunney, spesso popolate da mostri che, a conti fatti, sono tutt’altro che paurosi, fu anche il lavoro di Raymond Frederick Harryhausen (1920-2013), che alla fine degli anni Cinquanta aveva applicato la tecnica della stop-motion al live-action, dopo aver cominciato, da giovanissimo, a realizzare dei corti servendosi di dinosauri pupazzo da lui stesso creati. Come ricorderà il grande regista inglese Terry Gilliam: “Ciò che oggi noi facciamo con l’ausilio dei computer, Ray lo faceva molto prima digitalmente e senza i computer, utilizzando le sue sole dita”. Le visioni e le creazioni di Harryhausen furono fondamentali per gli scenari evocati da Tunney in “Cyclops…”: “Da bambino sono sempre stato affascinato dai risultati iperrealistici dell'animazione in stop-motion, in particolare dai ciclopi del film 'Il settimo viaggio di Sinbad' [film diretto nel 1958 da Nathan Juran]. Queste particolari figure di ciclopi mi sembravano la rappresentazione più efficace dell'Io freudiano, cioè agivano completamente senza considerare la società o l'interazione umana. Erano ferocemente determinati, poiché avevano un solo occhio... erano creature selvagge e tuttavia sapevano come prendere una persona e metterla in gabbia per poi cucinarla quando volevano. Erano terribilmente spaventosi e, allo stesso tempo, molto intriganti. Credo siano stati anche i movimenti a scatti dell'animazione in stop-action a conferire una qualità iperrealistica alle scene di queste bestie con un occhio solo e credo che questa sia una qualità affascinante di tutto il lavoro di Ray Harryhausen: le stesse animazioni non erano perfette, eppure erano incredibilmente interessanti da guardare, come se, attraverso il movimento imperfetto dell'animazione in stop-motion, creassero una realtà visiva alternativa, cosa che mi interessava molto. Credo sia stata una delle ragioni principali per cui ho intitolato il disco 'Cyclops Nuclear Submarine Captain'… perché la natura nautica di un sottomarino e le qualità steampunk di un ciclope pazzo hanno creato una combinazione molto bella.”
Rispetto all’esordio, Tunney muove qualche pedina sulla scacchiera della sua band: “Per 'Tit! (An Opera)', misi insieme un gruppo di musicisti e poi iniziammo a lavorare a nuove canzoni. Sapevo che il mio secondo disco doveva avere una portata grandiosa, quasi mitologica, e credo che le canzoni, nell'ordine in cui sono, trasmettano quest’idea. Prendemmo Race Age, un batterista meraviglioso (‘Tit’ non aveva batteria! Qualche drum machine, ma niente batteria), mentre Lee Ming Tah passò dalla chitarra lap steel al basso. Avendo una vera batteria, il suono si è espanso in modo sostanziale. Sapevo che doveva essere colorato e, con la collaborazione di mio fratello Chris [clarinetto, sax, organo e voce] e di Michael J. Schumacher alla chitarra, ero sicuro che questi diversi punti di vista sonori si sarebbero uniti o scontrati. Adoro l'idea che l'ascoltatore possa credere di guardare un film mentre ascolta ‘Cyclops Nuclear Submarine Captain’. Rimane il mio preferito tra tutti i miei album”.
Con il chitarrista Daryl Dragon a completare la formazione e il solito Kramer in cabina di regia (e, all’occorrenza, pronto a dare un contributo con organo e cori), il disco venne registrato in circa un mese negli studi Noise New York di Manhattan.
This is the moment
And that is the moment you caught me
Già l’iniziale “You Hit Me Over My Head”, accompagnata da uno stralunato clarinetto e dal suono appiccicoso di un wah-wah, mette le cose in chiaro: quella di Dogbowl è la musica di una felicità fanciulla, di un mondo parallelo in cui tutto è coloratissimo, smisurato e bizzarro, perché è così che sono i sogni dei bambini, soprattutto di quelli che per la prima volta, fosse anche solo inconsciamente, sperimentano il brivido dell’amore. Nello specifico, “You Hit Me Over My Head” presenta il tema dell’innamoramento facendo leva sull'immagine di un ragno che attrae la preda nella sua ragnatela. Ecco, quindi, che la donna ha un “cuore ragnateloso” e basta un suo sguardo perché l’uomo vi cada dentro “come una mosca” attirata dal “miele”. Questo discorso intorno all’amore come forza dirompente, che in pratica rende schiavo l’innamorato, secondo una tradizione che si può far risalire almeno fino all’elegia classica, prosegue nella successiva title track, in cui sembra di ascoltare la Bonzo Dog Doo-Dah Band a una stramba serata danzante, con sax e clarinetto a duellare a suon di ghirigori e allucinazioni. L’uomo è “il capitano ciclope di un sottomarino nucleare”, che non può fare a meno di guardare la propria amata con il suo “vecchio e grosso bulbo oculare” e “attraverso un periscopio”. Tuttavia, qui la tensione erotica è molto più accentuata, per quanto sempre accompagnata da un’ironia strisciante: “Voglio lanciare il mio siluro dentro di te, baby”.
“South American Eye” è una meravigliosa ballata che evoca terre lontanissime, quelle stesse che l’innamorato, qui paragonato a un “cavaliere arabo”, ha attraversato a volo d’uccello, vedendo passare “sotto di lui/ i campi petroliferi arabi nell’oscurità/ [che] erano come macchie di fuoco che danzavano”, alfine ritrovando la sua “principessa argentina” “in cima all'Empire State Building”, lì dove è intenta a suonare “la sua viola-violoncella”.
Outside Argentina was burning
As she played her cello or viola
While the country was falling in ash
There was music in her ears
She smiled, a sound so lovely
So lost was she eternally
Below he saw the desert pass beneath as he flew
In the darkness the Arabian oil fields
Were like fire spots dancing
He smiled, the desert air lovely
Carries him into the skyLater, when the morning arrived
He flew right down to her
She was playing her cello-viola
At the top of the empire state building
Hello my Argentine princess
“South American Eye” è uno dei brani che ancora oggi più soddisfa Tunney: “Ci divertimmo molto a realizzarlo. Ricordo che Kramer mi disse che avrei dovuto cantarla come se fossi un crooner, come Rudy Vallée, cosa che feci al meglio!”.
La successiva “Swan” contagia con la sua frenesia da vaudeville, mentre la figura femminile assume i connotati di un cigno con un “collo alto sei metri” (ma è anche un “dalmata”, un “serpente marino”, un “dinosauro”!), mentre l’uomo è solo un navigatore che può al massimo guardarla da lontano, in lacrime, “perché se resto/ il cigno mi inghiottirà come un fiore”.
Fondendo raga, free-jazz, lounge-music e disincanto post-sbronza, “Ferris Wheel” ci guida, invece, dentro i ricordi di un amore infranto:
So many years ago you broke my heart
Under the light bulbs bursting as the roller coaster
Slammed into me with the words you sing-song
I spent the night wandering to the dark
As the Ferris wheel followed me all the way home
Rolling like a memory and covered in bright lights
And comets and planets and comets and planets
And comets and planetsI felt the lust that takes you down to the harbor
I felt the lust that takes you down to the harbor
You kissed his lips on his lusty ship
And I watched you sail away
“Toilet!”, che viaggia a mille lungo una sbrigliata sarabanda zappiana, vede il nostro eroe interrogarsi intorno ai motivi che spingono una donna a "buttarlo nel cesso", e alla memoria tornano i giovanissimi Captain Beefheart e Frank Zappa: era il 1958 e in una classe vuota dell’Antelope Valley High School misero giù la loro primissima incisione, “Lost In A Whirlpool”, un grottesco blues basato su una strampalata storiella che Zappa aveva tirato fuori dal cappello della sua fantasia, immaginando proprio un tizio che veniva scaricato nel cesso dalla sua donna. Si trattava, disse proprio il buon Frank, di “uno scenario surf alternativo”, una definizione che potrebbe calzare a pennello anche per catturare al lazo l'essenza di "Toilet!", un brano in cui non solo la musica, ma anche il canto di Tunney è torrenziale, travolgente, quasi a mimare il turbine di uno sciacquone…
Siamo solo alla sesta traccia su diciannove, ma l’ispirazione di Tunney è già ai suoi massimi livelli. Ogni traccia impressiona per la sua costruzione certosina e per la sua filigrana melodica. Nessun secondo è di troppo. Non c’è un momento debole. “Silkworm Exploding” è un’irresistibile fanfara-pop con ritornello in formato gioia (“When you kiss me, I'm a silkworm exploding”): la donna bacia l'uomo-ciclope e lui si trasforma in un baco da seta che esplode dalla felicità! Sullo sfondo, la tragica storia del Titanic, che qui non è più tragica, perché la fantasia può tutto, anche cancellare il suo naufragio e immaginare la sua, del Titanic, trasformazione in “un dirigibile che fluttua nel cielo, leggero come un gigantesco baco da seta”, un dirigibile che “sta finalmente arrivando a New York City”, guardate!, “potete vederlo, i suoi passeggeri stanno salutando mentre galleggia su Manhattan/ sotto le nuvole, sta attraccando con la punta in cima al Chrysler Building”!
Dopo il delicato acquerello di “Window Fall Down” (dove le mani della donna sono "d'avorio/ e fatte per me come chicchi di grandine che cadono" e in cui l'atmosfera surreale che domina l'intero disco è saldamente ancorata intorno ad altre immagini poetiche quali dei "fiori che parlano senza sosta"), ecco il girotondo tambureggiante di “Float” (la donna e l'amore come un'ossessione che riempiono il silenzio della notte...). Dunque, “Love Bomb”, a dire di un amore in cui il confine tra spiritualità e carnalità esplode nuovamente e rumorosamente come una bomba: “Ti inseguirò e poi ti bacerò/ Metterò la mia lingua dentro la tua bocca/ Sotto le coperte siamo amanti/ Tu baci il mio bottone e io esplodo con te”. A dir poco esilarante è, invece, la gag politicizzata di “Revolution Of The Homeless”, che Zappa avrebbe approvato con un grosso sorriso, lasciandosi coinvolgere dalla storia di questi senzatetto decisi a fare la rivoluzione, perché negli Stati Uniti “la gente è disperata”, e allora via a bruciare le auto della polizia, a prendere possesso delle stazioni televisive, a invadere lo Studio Ovale della Casa Bianca… via a chiamare anche l’esercito, perché gli stessi soldati finiranno per combattere “per la libertà di essere protetti”.
Poi il sottomarino, che è, basta volerlo!, un disco volante, riparte... e questa volta verso la Mongolia (“Flying Saucer Over Mongolia”), e siamo nuovamente, noi insieme al nostro eroe, anzi noi ormai quello stesso eroe, nel bel mezzo di immagini che scivolano uno dentro l’altra, in una giostra di invenzioni, e c’è “un grande e vecchio bulbo oculare/ che si rotola sulla recinzione bianca/ sotto le stelle cadenti che cadono/ precipitando sotto pianeti viola”, e c’è “una roccia con una grande cima/ che mi lecca il lobo dell'orecchio/ galleggiando nel sole di mezzanotte/ su nel Circolo Polare Artico viola”, e “una giraffa sta ballando/ il tango sulla mia fronte”, e vedo Gengis Khan, e sogno di “cavalli urlanti che ballano il tip tap”.
“Beautiful Trailer Park” ci trasporta, invece, in una festa di paese di cui si racconta in una fiaba della buona notte, e in questa fiaba si aprono varchi verso fiabe che contengono altre fiabe, dentro cui si nascondono “un bellissimo parcheggio per roulotte”, “una piccola compagnia di marinai”, “una potente nave fatta d’avorio” e un uomo, con una gamba anch’essa d’avorio, che ha un coltello e che “navigherà con il suo treno fino a uccidere la bestia bianca”, quella che “brilla nel buio/ e che sprizzerà dal suo serbatoio una fontana di blasfemia”. Ancora una volta, il crooning di Tunney si sposa perfettamente con la magia di una musica che sembra provenire da una dimensione parallela, in cui il pop psichedelico sviscera le sue ramificazioni più fanciullesche (ancora Syd Barrett, certo!) attraverso la lente di un romanticismo d’altri tempi (Kevin Ayers, ovunque tu sia, batti un colpo!) o, per meglio dire, di un tempo fuori dal tempo, lì dove il bambino è davvero il padre dell’uomo, per dirla con il Brian Wilson di “Child Is The Father Of The Man”, una delle gemme delle “Smile Sessions”.
Volendo in questi solchi rintracciare il retaggio punk di Tunney, pur se ovviamente filtrato dal setaccio del pop psichedelico, ci si potrebbe rivolgere ad “Apple Mary”, dove la donna da amare è proprio questa Mela Maria, che ha “gli occhi da torta di mele” e quando bacia il suo uomo lo fa sentire “come una caramella”, mentre tutt'intorno proliferano immagini da sogno, perché nel sogno tutto è possibile, anche ritrovarsi, con la nostra amata, in "un albero di plastica", a bere "tè di cellophane", "mentre l'uomo-Plutone ha la testa nella sabbia" e "Orantugan-bangatang sta mangiando un boomerang/ E tu mi ecciti/ Quando ti sdrai sul pavimento di moquette bagnata"...
Nella serenata di “Flower Garden Bed”, l'uomo-ciclope si è invece rotto in “piccoli pezzi”, dopo aver cercato di volare sul tetto della casa della sua bella. Poco male: lei potrà piantarli nel suo “giardino fiorito”, dove "io crescerò in te e tu in me", perché "ogni piccolo pezzo di me/ troverà ogni piccolo pezzo di te". E se in “Carnival In The Swamp”, i due balleranno su di “un coccodrillo di tre metri”, così onorando un carnevale organizzato in una palude, mentre “le lucciole danzano con la luce della loro lanterna”, in “So Painful” (forte di un clarinetto suonato così come avrebbe potuto fare il Capitano Cuordibue) il dolore del distacco (“lei è molto più felice di stare con lui/ ed è così sincero, questo amore che stanno vivendo”) viene trasfigurato in un andamento sbarazzino.
Il viaggio di Dogbowl e della sua ciurma si compie con un tocco di nostalgia, sentimento che attraversa, da cima a fondo, la dolceamara “Shopping Mall”. L’amore è uno dei grandi pilastri dell’esistenza, forse il pilastro per eccellenza. Negli occhi della propria amata, un uomo può intravedere l’Aurora Boreale, la cometa di Halley o quella di Kohoutek; ella può essere null’altro che la Venere raffigurata da Botticelli… eppure, il sentimento d’amore, quello che è capace di gettare un ponte tra la vita di due persone, è sempre vacillante, perché l'amore è essenzialmente desiderio, il che significa che è un po' come guardare le stelle: tu cerchi di afferrarle, ma loro se ne restano lì, indifferenti, più o meno luminose e, soprattutto, lontane. C'è questa distanza incolmabile che è ciò che, in fondo, conta. E c'è la possibilità di reggere, con gli occhi, quello sguardo che la donna ci rivolge, magari immaginandoci come dei novelli cantori dell'amore secondo i dettami di quello stile poetico che Dante diceva essere incardinato intorno a rime "dolci e leggiadre"... Eppure, oltre quello sguardo si spalanca il Mistero, l'Enigma, la nostra inquietudine, che è ciò che si deve sopportare, soprattutto quando siamo immersi nel caotico andirivieni di quelli che Marc Augé chiamava "nonluoghi".
Aurora Borealis I find
So deep in your pupils inside your eyes
Away with a halo of icicles
Falling from youHalley's Comet and Comet Kohoutek
Each hold a spot in a velvety iris
Passing through both of your eyes
When you're eliminating me(...)
Botticelli was dreaming of you
When the seashell opened presenting you
He painted you naked
And I fainted and fell to the floor(...)
There's not a lonelier place in the world
Than sitting alone in a shopping mall
Just waiting for someone to happen
Anyone at all
“Non c'è condizione più solitaria al mondo/ che stare seduti da soli in un centro commerciale/ Aspettando che accada qualcosa/ Qualunque cosa”, canta l'uomo-ciclope Dogbowl, mentre la musica circumnaviga la sua solitudine, prima di scivolare nel silenzio.
04/02/2024