Dusty Springfield

Dusty In Memphis

1969 (Philips/ Atlantic)
pop, soul

Dusty la piantagrane!

Così la stampa appella Dusty Springfield nell'inverno del 1964, dopo che quest'ultima è riuscita a farsi deportare dal governo del Sudafrica durante una tournée. In verità, la clausola del contratto redatto da Dusty è chiara sin dall'inizio: la cantante rifiuta di esibirisi di fronte a una platea segregata dalle leggi dell'apartheid. Invece, con l'avanzare delle date da Pretoria a Città del Capo, le facce del pubblico in sala sono inequivocabilmente sempre più bianche. Dusty alza la voce in segno di protesta, gli ufficiali vanno a trovarla in hotel per consegnarle un mini-permesso di soggiorno con comoda scadenza di... ventiquattr'ore: giusto il tempo per far le valigie, Dusty e la sua band vengono messi sul primo volo disponibile e rispediti in Gran Bretagna. All'arrivo a Heathrow, i giornalisti hanno imbastito una conferenza stampa per chiarire l'incidente, Dusty si mostra al solito placida e pertinente, ma conscia dell'ambiente in cui si muove e decisa a non lasciarsi intimorire. Ma in Sudafrica non metterà più piede.
Quando si parla di una delle più riconoscibili cantanti britanniche del Novecento gli aneddoti abbondano, ma Mary Isobel Catherine Bernardette O'Brien è stata una personalità davvero affascinante e infinitamente complessa, tanto in pubblico quanto nei risvolti della sua drammatica e spesso triste vita privata.

 

Sul palco compare Dusty Springfield, celebre volto al perossido degli Swinging Sixties e della prima British Invasion, una Diva appariscente, perfezionista e dal carattere difficile, per quanto mai priva d'ironia. Eternamente in ritardo ovunque vada, non esce di casa senza almeno tre strati di trucco, una montagna di parrucca e lunghi strascichi di velluti e paillettes che la fanno sembrare ancor più minuta del suo metro e sessanta d'altezza. C'è chi pensa sia una stronza, dal momento che in pubblico non parla con nessuno; in verità Dusty è fortemente miope e rifiuta di portare gli occhiali per non sbrattare l'eyeliner, risultando in bellissime foto per chi le osserva sui giornali, ma lei a malapena distingue i volti di chi le sta calpestando i piedi, alimentando le voci attorno al suo esoso personaggio.
Mary O'Brien, invece, è più affabile e terrena nelle relazioni personali, ma sempre molto schietta e passionale, come da sangue irlandese e scozzese che le scorre nelle vene - il nomignolo Dusty le viene dato quando è ancora piccola, perché preferisce giocare a pallone in strada con i maschi piuttosto che con la casa delle bambole. Fortemente cattolica ma ancor più ferocemente lesbica, Mary è una continua montagna russa di ansie e paure; sotto quella soffice parlata velatamente londinese si agita un'anima confusa e terrorizzata, venata ora da scoppi d'ira e subito dopo da grasse risate. L'ingombrante personaggio pubblico che ha creato per mascherare le insicurezze sul proprio aspetto fisico e orientamento sessuale le fa ottenere un gran successo, ma presto si tramuta in un mostro che le causa episodi di schizofrenia e quella che, si specula, sia una delle più plateali sindromi dell'impostore mai osservate in campo discografico.

 

Esiste, tuttavia, un luogo sacro dove Mary e Dusty s'incontrano: la voce. Davvero difficile descrivere a parole quell'inusuale mezzo soprano riconoscibile tra mille: fumo e vapore, sofisticazione e passionalità, puro artificio popular e profonda emotività femminile. La chiamano la gazza ladra, per la sua innata abilità di modificare il timbro come fosse oro duttile a 24 carati; eccola spiccare il volo sopra i melodrammatici tappeti di violini della canzone italiana, poi alle prese con i più melmosi blues del Delta e la chitarra di Jimi Hendrix, la sensualità del jazz-pop d'autore (Burt Bacharach va letteralmente nei pazzi quando lei gli ricanta "The Look Of Love") e stornelli folk e finanche zulu.
Stavolta, la miopia le viene in aiuto: incapace di mettere a fuoco le fisionomie dei volti in sala, Dusty vince la paura da palcoscenico perché, in un certo senso, tolto il rumore degli applausi, è come se fosse sola di fronte al microfono. Anche per questo, le sue esibizioni non sono mai apertamente slanciate verso il pubblico, ma osservarla mentre si perde dentro alla canzone ha un che di sovrannaturale.
Con l'arrivo degli anni Sessanta, Dusty è anche tra le prime cantanti britanniche in grado di misurarsi con gli stilemi musicali afroamericani del soul e del rhythm'n' blues e farli suoi senza scimmiottare gli originali, ma anzi aggiungendovi un'eleganza quietamente passionale. L'ammirazione che prova per l'esperienza di James Brown, Nina Simone, Aretha Franklin e compagni nasce dal profondo - la decisione di schierarsi contro l'apartheid in Sudafrica non è quindi una boutade politica, quanto un piccolo ma significativo gesto di solidarietà.

 

Le cose si fanno ancor più elettrizzanti nell'aprile del 1965, quando Dusty convince i produttori del celebre programma televisivo "Ready Steady Go!", in onda il venerdì sera su Atv, a lasciarle presentare uno speciale interamente dedicato ai suoi idoli preferiti, i nuovi artisti della Motown. Per la prima volta, il pubblico britannico trova sullo schermo i volti sorridenti di Smokey Robinson And The Miracles, gli stilosissimi Temptations con i loro balletti coordinati sulla celebre "My Girl", e un appena quindicenne Stevie Wonder. Le Supremes intonano hit del calibro di "Stop! In The Name Of Love" e "Baby Love", Martha Reeves And The Vandellas presentano "Nowhere To Run" e si uniscono a Dusty su una memorabile versione a quattro voci di "Wishin' And Hopin'". Lungo cinquanta minuti di coreografie, scorribande e un'impressionante scaletta di brani, il programma è un gran successo e contribuisce all'espansione del verbo Motown in Europa. Proprio per il contingente americano invitato da Dusty, composto da gente cresciuta sotto gli strascichi delle leggi razziali di Jim Crow, l'accoglienza britannica è uno shock. Alloggiati al Ritz su Piccadilly, hanno a disposizione un autista per portarli agli studi della Atv. Poi, la sera dopo le registrazioni, tutti a Soho a far baldoria nei localini jazz, attorniati dal gotha degli Swinging Sixties londinesi, dal rivoluzionario parrucchiere Vidal Sassoon alla famosa modella Twiggy, i Kinks, l'esoso attore Kenneth Williams e uno stuolo di giovani giornalisti, fotografi ed edonisti di vario genere.

In Memphis (ma anche a New York)

 

Presto giunge l'ora di ripagare il favore; se la Motown ha successo in Europa, Dusty può attraversare l'Oceano e presentarsi al pubblico americano. Il noto discografico Arif Mardin, e l'esperto produttore Jerry Wexler, la invitano a firmare un contratto con la Atlantic, al momento una delle garanzie principali in fatto di musica soul.
Ma i primi incontri sono disastrosi. Jerry ha assemblato un quaderno con ottanta demo e Dusty li rifiuta tutti, uno a uno. Mesi di contrattazioni dopo, vengono infine selezionati undici brani. Arriva l'ora dell'incisione agli American Studios di Memphis, dove Jerry ha raccolto gran parte della band che ha lavorato su un altrettanto storico album uscito sotto Atlantic giusto qualche mese addietro, "I Never Loved A Man The Way I Love You" di Aretha. Abbiamo Reggie Young (chitarra), Gene Chrisman (batteria), Bobby Wood (piano), Bobby Emons (tastiera), Tommy Cogbill (basso), Mike Leach (percussioni) e le Sweet Inspiration, un quartetto di coriste da urlo al momento composto da Sylvia Shemwell, Estelle Brown, Myrna Smith e Cissy Houston (quest'ultima già madre di una certa Whitney). Il lavoro di stesura delle tracce procede spedito, ma un'impietrita Dusty rifiuta di fornire le parti vocali; oltre alla paura di reggere il confronto con i propri idoli, si sente messa sotto al vetrino del microscopio dall'atmosfera intima che s'è formata in studio, lontana anni luce dalle distaccate registrazioni con orchestra alle quali era abituata in Inghilterra.

 

Dopo due settimane di frustranti silenzi e i soliti clamorosi ritardi per farsi il trucco prima di lasciare l'hotel, Jerry e Arif la portano a New York assieme al co-produttore Tom Dowd, per scrivere gli arrangiamenti orchestrali e vedere se riescono a farle aprir bocca.
Il resoconto di Jerry a New York è a dir poco bizzarro; Dusty, chiusa in cabina di fronte al microfono, continua a chiedere costantemente volume in cuffia mentre canta, perché non vuol sentire il suono della propria voce dal momento che la ritiene brutta e inadatta. Jerry lo riabbassa gradualmente per aiutarla a mantenere la tonalità, stizzita Dusty lo fa rialzare, in un gioco tra cane e gatto che va avanti per giornate intere. Alla fine Jerry è esausto, si mette le cuffie per capire il livello di volume col quale la cantante sta lavorando.

Ma come cavolo fa a non essere sorda?

Bella domanda. Ma una cosa è certa: le intepretazioni su "Dusty In Memphis" toccano il sublime, un saliscendi di gentilezze d'antan, torbide torch song avvolte dal fumo e inusitati acuti d'energia che mescolano pop europeo e soul americano in un abbraccio indissolubile. Attorniata dal suono di una band d'eccezione, e solo dopo abbellita con archi, ottoni, armonica e un cimbalon, la voce di Dusty viene sospinta con grazia di fronte al mix, facendone risaltare al meglio ogni singola sfumatura. Trattasi di una registrazione dinamica e già più moderna rispetto allo standard del pop canoro eseguito fino a quel momento - e con un timbro così duttile e cangiante, l'ascolto è sublime.
Basta l'introduzione di "Just A Little Lovin'" per assaporare il fascino di un involucro orchestrale calibrato al dettaglio attorno alla melodia, la voce vi splende sopra come un sole di maggio: Dusty l'anglosassone è molto controllata ma nasconde un universo di torbide emozioni appena sotto la superficie, e in un attimo è capace di scattare in avanti su ariosi squarci soul. Paradossale, semmai, ascoltare le tante interviste rilasciate nel corso della carriera, durante le quali Dusty ha sempre lamentato di essere una pessima cantante, nonostante l'evidenza del contrario e il plauso non solo del pubblico, ma anche di svariati musicisti afroamericani disposti a darle tanto di cappello in un periodo storico dove tali relazioni non erano certo delle migliori.

Ma Dusty è fatta così, un continuo schernirsi in pubblico salvo poi mettere su nastro momenti canori che vengono ancora studiati; ecco "Son Of A Preacher Man", scalpitante funk a tinte gospel dal testo libertino, la cui metafora per romantici peccatori assume un tono ancor più pungente se intonata da una cantante lesbica che ha dovuto costruirsi attorno un'alienante impalcatura di autodifesa - il modo in cui sovrasta sia le coriste che quei ruggenti tappeti di ottoni lascia ben poco all'immaginazione, altro che il figlio d'un prete. E se di doppi sensi dobbiamo parlare, allora va citato anche l'altro singolo "Breakfast In Bed", scritto appositamente per questo album da Eddie Hinton e Donnie Fritts: con grazia venata d'acciaio, Dusty interpreta l'amante rapace in attesa degli errori altrui per poter soddisfare la propria sete egoista, in un autolesionista gioco di scarsa autostima e solitudine annebbiato da peccaminosi bacetti erotici - non si poteva trovare interprete migliore per toccare tali contrastanti sfumature nel giro di poche frasi.

 

Ben quattro brani in scaletta sono firmati dalla coppia Carole King/Gerry Goffin, perché Dusty è altamente impressionata dalle capacità compositive del duo e la varietà qui prescelta ne dimostra le qualità prim'ancora dell'arrivo di un "Tapestry"; l'inneggiante "So Much Love" è un continuo dispiego di elastici cori soul accompagnati da una pulsante linea di basso, mentre la velatamente drammatica "I Can't Make It Alone", posta in chiusura, impiega lussuosi stuoli d'orchestra per legarsi tematicamente al gusto europeo del catalogo passato dell'interprete. Tutt'altra pasta l'introspettiva ballata pop "No Easy Way Down": sembra suonata al rallentatore, costringendo Dusty ad allungare le sillabe senza scadere nel melisma fine a se stesso, un saggio canoro talmente sottile che ci vogliono svariati ascolti per rendersi conto dell'incredibile autocontrollo applicato appena sotto al filo dell'emozione. E poi c'è il pulsante gospel-blues di "Don't Forget About Me", sorretto da una fragorosa sezione ritmica e i ghirigori psichedelici di chitarra elettrica a cura di Cogbill.

 

Il lato più introspettivo del lavoro offre una serie di delicatezze d'autore che donano all'ascolto la giusta tridimensionalità espressiva; facile passare sopra "I Don't Want To Hear It Anymore" scritta da Randy Newman, il brano apparentemente meno incisivo del lotto, ma che arriva servito all'ultimo da un'interpretazione di razza che ondeggia tra il lascivo noncurante e il drammatismo da teatro. Anche "Just One Smile" porta la firma di Newman; stavolta Dusty complica la semplicità delle liriche snocciolando gocce di passione su un maestoso crescendo orchestrale.
Bacharach viene onorato tramite la scelta di "In The Land Of Make Believe": tra falsetto e sitar, l'intermezzo più curioso e idiosincratico non solo in scaletta ma anche sul resto della discografia. La connessione europea sopravvive nuovamente nella scrittura del compositore francese Michel Legrand e nella melodrammatica "The Windmills Of Your Mind", una perfetta progressione da musical al ritmo di samba sulla quale Dusty ha modo di struggersi e toccare ogni ottava a sua disposizione. Come dicono spesso gli ammiratori del suo stile canoro, a momenti non sembra nemmeno la stessa persona.

In purgatorio, e infine ai posteri

 

Nonostante la curiosità suscitata dall'idea di "soul bianco", ai tempi ancora in fase sperimentale, e le recensioni positive da parte degli addetti ai lavori che ne comprendono subito la caratura, "Dusty In Memphis" inizialmente non ottiene alcun successo. Anzi, segna l'inizio di un lungo declino discografico che durerà quasi in ventennio e verrà interrotto solo dal fortuito arrivo dei Pet Shop Boys. Nel mezzo, una sfortunata serie di album e goffi tentativi di rientro in pista, lunghi silenzi, crisi finanziarie, abuso di droghe, tentati suicidi e una relazione tossica che finirà in ospedale con un dente rotto da una padellata.
Con la fine degli anni Sessanta, Dusty il volto simbolo della decade rimane come cristallizzato nella memoria collettiva, amatissimo dai nostalgici ma orfano del suo stesso futuro. Ci sono altri aneddoti che si possono impiegare per spiegare, almeno in parte, il cambio di guardia e di gusti del pubblico con l'arrivo degli anni Settanta. Durante le registrazioni di questo disco, Dusty suggerisce a Jerry Wexler il nome una giovane band chiamata Led Zeppelin e lui li mette sotto contratto per duecentomila dollari senza averne sentita manco una nota - il resto è storia. A pochi mesi dall'uscita di "Dusty In Memphis", scompare anche Judy Garland nel giugno del 1969, chiudendo idealmente questa prima era d'oro delle dive canore da esibizione orchestrale televisiva - non solo Dusty quindi, ma anche per Petula Clark, Cilla Black, Sandie Shaw, Lulu e, almeno in parte, la Bond girl per eccellenza, Shirley Bassey.

 

Ma la qualità non invecchia mai. Con l'andare degli anni e delle mutazioni della musica soul, "Dusty In Memphis" è diventato lo standard da seguire, un love affair particolarmente longevo soprattutto in Inghilterra, tramite una trafila di cantanti bianchi innamorati del soul, da Annie Lennox e George Michael a Duffy e Adele. Nel 1994 ci si mette pure Quentin Tarantino con una scena di "Pulp Fiction" sottolineata dalle note di "Son Of A Preacher Man", reintroducendo Dusty a una nuova generazione di ascoltatori.
Ristampato, adorato, mitizzato e ultimamente consegnato ai posteri come futuribile testamento di un'era passata, "Dusty In Memphis" rimane tutt'oggi un ascolto meraviglioso.

18/12/2022

Tracklist

  1. Just A Little Lovin'
  2. So Much Love
  3. Son Of A Preacher Man
  4. I Don't Want To Hear It Anymore
  5. Don't Forget About Me
  6. Breakfast In Bed
  7. Just One Smile
  8. The Windmills Of Your MInd
  9. In The Land Of Make Believe
  10. No Easy Way Down
  11. I Can't Make It Alone

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