I Manic Street Preachers venivano da un secondo album di buon successo, quando entrarono in studio all'inizio del 1994 per registrarne il seguito.
Come base operativa scelsero un piccolo studio in Galles e rifiutarono la possibilità di incidere l'album alle Barbados, come i pezzi grossi della Epic avevano proposto. Il cantante dei Manics, James Dean Bradfield, dichiarò anzi di non apprezzare quel tipo di scelte da rockstar decadente, probabilmente memore delle situazioni improduttive e incredibilmente dispendiose in cui si erano ritrovate band come New Order e Happy Mondays.
Nel suo stanzino a Cardiff, la band lavorò senza sosta per un mese, accettando la sola presenza dell'ingegnere del suono Alex Silva. Manager e discografici vennero tagliati fuori e non ebbero alcuna voce in capitolo. Fatta eccezione per Steve Brown, che produsse "She Is Suffering", l'album è interamente diretto dalla band. Questo ne spiega lo scarto stilistico rispetto a "Generation Terrorists" e "Gold Against The Soul", dove il quartetto ebbe minor controllo in fase di regia.
Il titolo "The Holy Bible" venne scelto dal chitarrista Richey Edwards (accreditato come Richey James nelle note di copertina). Edwards spiegò come l'evocazione della Bibbia conferisse un carattere di verità assoluta ai testi delle canzoni. Sottolineò tuttavia che si trattava di un paradosso, essendo le verità rivelate dalla religione quasi sempre a senso unico, e con obiettivo ultimo l'esercizio del potere. Molte canzoni di "The Holy Bible" mirano infatti proprio a stroncare e mettere in evidenza le contraddizioni del potere.
I testi dell'album vennero scritti per la maggior parte da Edwards, col contributo del bassista Nicky Wire. Nessuno dei due partecipò alla composizione dei brani, essendo entrambi in grado di suonare qualche accordo e poco più. Modeste capacità e alcolismo pesante resero superfluo il contributo musicale del chitarrista ufficiale, che a tutti gli effetti non suona nel disco. Le parti di chitarra sono da ricondurre per intero a Bradfield. Le linee del basso pare siano invece di Wire, ma con la mano di Bradfield ad attraversare le parti più articolate.
Bradfield e il batterista Sean Moore, a differenza dei compagni, erano due musicisti capaci, magari non virtuosi ma solidi e più avanti nella carriera, in grado di suonare egregiamente strumenti acustici, tastiere e quant'altro servisse ad arricchire gli arrangiamenti.
Ricchezza che però non fa ancora parte di "The Holy Bible", il lavoro più ispido dell'era britpop, tanto acuminato e scevro da compromessi che in molti si rifiutano di inserirlo in quel calderone, preferendo la più generica etichetta di "alternative rock". Non è il caso di discutere sul sesso degli angeli, ci sono album che risulteranno sempre difficili da inscatolare nei confini tracciati dalla critica musicale, e "The Holy Bible" ne è un perfetto esempio.
Il suono è un hard-rock che si spoglia della patina di band commerciali americane come Guns N' Roses e Bon Jovi (più di un giornalista ne aveva annusato il sentore nella precedente prova in studio), e torna piuttosto a guardare in patria, cercando un ponte col post-punk aggressivo di "Entertainment" dei Gang Of Four e "First Issue" dei Public Image Ltd. Se uno sguardo è rimasto nei confronti dell'altra parte dell'oceano, è al massimo verso il grunge, elemento che si evidenzia nello stratagemma di mettere di tanto in tanto in contrasto distorsioni selvagge e chitarre d'atmosfera.
Bradfield non ha scritto una parola del disco, ma la passione con cui si sgola e rende ficcante ogni verso è facilmente spiegabile dal modus operandi della band. Bradfield e Moore hanno infatti musicato i testi dei compagni, in un processo inverso rispetto a gran parte della musica rock, dove la musica è solita precedere i versi. È Bradfield che ha quindi deciso la posizione di ogni parola all'interno del corpo delle canzoni, e il senso di immedesimazione generato dalla sua interpretazione accorata ne fa quasi un antipasto dello struggimento nichilista che, una decina d'anni dopo, avrebbe marchiato certa musica emo.
Sono testi dal messaggio diretto, ma sono stati disseminati di talmente tanti riferimenti da somigliare a dei puzzle. Molte canzoni contengono inoltre frasi campionate da conferenze, interviste e show televisivi, pescando fra tutto lo scibile del dibattito pubblico dell'epoca: filosofi, scienziati, attori, politici e via dicendo. L'obiettivo è di restituire un ritratto dell'uomo moderno e delle sue storture, ma anche di utilizzare la forza della cultura in qualità di ultimo baluardo difensivo (un paio d'anni più tardi il singolo "A Design For Life" si sarebbe aperto non a caso col verso "Le librerie ci hanno dato il potere").
Certo, voler celebrare la cultura e inserire un apostrofo errato nel titolo del secondo brano in scaletta, "Ifwhiteamericatoldthetruthforonedayit'sworldwouldfallapart", deve aver fatto storcere il naso a molti all'epoca, ma considerando che il refuso non è mai stato corretto in nessuna delle numerose ristampe, è quasi certo che l'autore l'abbia voluto. Non si ha idea del motivo e alla fine non è interessante, dato che non impedisce al brano di essere una punta di diamante nel repertorio dei Manics, una cavalcata tambureggiante e serrata, con chitarre che impennano e un finale nel segno della mutazione, quasi prog. Il testo di denuncia verso il razzismo, manco a dirlo, è ancora oggi attuale.
Non si sottolinea abbastanza spesso quanto l'album sia variegato, perché gli arrangiamenti non cambiano mai. Cambiano però le strutture e i timbri. Ecco quindi che, trafitta da distorsioni e fischi, "The Intense Humming Of Evil" sfoggia un battito meccanico in pieno stile industrial, mentre in "This Is Yesterday" risuona la dolcezza dei Clash di "Lost In The Supermarket", pur sommersa da un quintale di riverbero. Se "Archives Of Pain" alterna sincopi funk e sfuriate hardcore, "4st 7lb" è un intreccio di scarni riff chitarristici, liquidi effetti di sottofondo e assoli contorti. La voce di Bradfield passa senza problemi dall'assalto alla carezza e viceversa, descrivendo l'incubo dell'anoressia: "Giorni dall'ultima volta che ho pisciato, guance incavate e disperate. È così bello scendere a sei stone (nota: trentotto chili circa), perdere la mia sola casa rimasta, vedere la mia terza costola apparire. Una settimana dopo tutta la mia carne scompare. [...] Sto migliorando. Karen (nota: Carpenter, con ogni probabilità) dice che ho raggiunto il mio peso forma".
Il riff portante di "Yes" alterna tempi dispari e pari, creando una circolarità che anticipa in qualche maniera il mood degli Strokes, mentre "Die In The Summertime" è caratterizzata da un suono sporco in odor di grunge, e il post-punk di "Of Walking Abortion" desta interesse per l'utilizzo della seconda chitarra, mixata quasi in sottofondo, e volta a costruire una scia luminosa attraverso l'effetto phaser. Con il suo incedere singhiozzante, "Mausoleum" descrive il dramma dei campi di concentramento. Wire la scrisse dopo aver visitato Belsen e Dachau.
"Revol" è un ibrido punk-pop che col suo calderone di nomi (da Lenin a Pol Pot, passando per Gorbachev) attraversa tutti i chiaroscuri del pensiero novecentesco e dell'attività politica tanto cari alla formazione. L'impressione è di ascoltare l'inno di una rivoluzione mirata a sovvertire l'ordine della società occidentale.
È però in "Faster" che emerge tutto il senso di alienazione di Edwards: "Sono un architetto, mi chiamano macellaio. Sono un pioniere, mi chiamano primitivo. Sono la purezza, mi chiamano pervertito". Memorabile l'apparizione a Top Of The Pops in supporto del brano - Wire con il viso truccato (in teoria mimetica militare, in pratica uno zombie) e Bradfield con un passamontagna in stile Ira. Il pubblico conservatore, sdegnato, sommerse la Bbc di proteste.
L'album entrò al numero 6 della classifica inglese, il loro più alto piazzamento fino a quel momento, ma appena due settimane dopo era fuori dai primi quaranta e venne sostanzialmente ritenuto un fiasco. Qualche tempo dopo, per l'esattezza allo scoccare del febbraio del '95, Richey Edwards spariva nel nulla. Nessuno ha più avuto sue notizie da allora e nel 2008 un tribunale gallese, su richiesta dei genitori, l'ha dichiarato morto.
È stato quel dramma, sommato al grande successo commerciale dei due successivi album dei Manics, a porre le basi della rivalutazione postuma di "The Holy Bible", che è così arrivato, nel corso nel tempo, a superare le centomila copie vendute in patria e a diventare un'opera di culto. Oggetto di idolatria per la critica britannica, è oggi considerato il capolavoro dei Manic Street Preachers, subissando per prestigio ogni loro altra pubblicazione, e viene giustamente indicato fra i vertici del rock di fine millennio.
03/12/2017