Boombox sulla spalla a tutto volume lungo gli isolati del Bronx, tra posse metropolitane, rime poco ortodosse, campionamenti che proprio non t’aspetti e passi di James Brown rispolverati ad hoc, giusto per ricordare chi "comanda" davvero.
E’ il 1984. Keith Matthew Thornton, aka Kool Keith, vive alla giornata, tra un vinile da consumare e una rima da cucire. Un Master of Ceremonies che vuole sfondare e partorire la propria creatura, proprio come tanti. Per farlo, chiama a rapporto l’Mc e producer Cedric Miller, in arte Ced Gee, e i dj Trevor Randolph e Maurice Smith, meglio noti rispettivamente come TR Love e Moe Love. Nasce così un quartetto di giovincelli irriverenti pronti ad assaltare qualsiasi cosa capiti a tiro con tempi dispari, break stravaganti, bordate verbali e una verve da animali da palcoscenico cresciuti sul "palco" della strada a colpi di magnete. E' infatti un magnetismo (ultra) vibrante a distinguerli dalla massa, così come suggerisce il nome scelto: Ultramagnetic MC’s. Moniker senza compromessi, certo, che la dice lunga sulle velleità iniziali di quattro ragazzi in cerca di quella fama tanto agognata nello smargiasso clima reaganiano di quegli anni, inseguita da frotte di rapper e disc-jockey, figli adottivi delle cinque furie di sua maestà Joseph Saddler.
L'ego smodato della band newyorkese inciampa nel 1986 nelle classifiche degli States, con un singolo intitolato, guarda caso, “Ego Trippin”; brano inserito due anni dopo nell'esordio discografico, “Critical Beatdown”. Un'entrata in pista assolutamente illuminante, spavalda e mediamente distante dal resto della ciurma east coast, per giunta contenente anche il primo sample della storia di uno dei brani più saccheggiati degli ultimi 6 lustri: “Synthetic Substitution” del bluesman Melvin Bliss. Preveggenza? Non solo.
Ebbene, tra le formazioni che hanno saputo sterzare in autonomia nell'ultima fase della cosiddetta old school, gli Ultramagnetic MC’s occupano un posto speciale. Battiti funky spediti sulla Luna, rime strampalate su temi spesso assurdi, flow privo di coordinate e scratch in controtempo tra sontuose impennate e continue frenate: l’hip-hop della cricca guidata da Thornton - prima di intraprendere una fortunata e apprezzata carriera solista - è alieno quanto basta per salire a mani basse sulle scale dell’Olimpo e, in particolare, fungere da faro nella mutazione di un genere non più meramente underground, ma sempre più prossimo ai piani altissimi del business che "conta" nel beneamato Occidente.
Il disco è interamente prodotto avvalendosi del mitico E-mu SP-1200, campionatore rilasciato sul mercato soltanto pochi mesi prima dalla E-mu Systems. Un gioiello che Ced Gee manovra alla perfezione. Troviamo, appunto, sample inseriti chirurgicamente che includono, tra gli altri, David Bowie, The Meters, Bob James, Mongo Santamaria, Dennis Coffey, The Winstons, Lyn Collins, Motorhead (!), Juice e la voce della torre di controllo di un lancio della Nasa del 1981. Fa ovviamente storia a sé James Brown, piazzato a più riprese dal gruppo, a conferma di un’idolatria condivisa e senza compromessi.
Well, I'm the ultimate—the rhyme imperial
I'm better, but some don't believe me though
But I'm a pro in hot material
On your Walkman, box or any stereo
Uno, dos not cuatro
Spanish girls, they like to call me Pancho
On the mic, innovating this pat-ter-en
You fell off, your brain is on Sa-tur-en
Take steps, and climb my ladder-and
Climb... climb, climb
Pace the rhythm, and clock the time
Basterebbero i primi versi inanellati da Kool Keith nell’apripista “Watch Me Now” per cogliere da subito la metrica insolita degli Ultramagnetic MC’s. Trame estrapolate da "Star Trek", discorsi presi in prestito dai playground sotto casa, tra un canestro e l'altro, ma soprattutto fughe volutamente pacchiane dalle tematiche riottose da black panther medio del ghetto.
Insomma, gli Ultramgnetic MC’s sono dei cazzoni, e sanno perfettamente di esserlo. Il loro mood, d'altronde, è differente.
Mixato allo Studio 1212 situato nel cuore del Queens, dopo aver testato nei primi mesi trascorsi artisticamente assieme una drum machine Roland TR 707 e un registratore 12 tracce Akai, “Critical Beatdown” è una sassaiola senza soste di rime freestyle e vaneggiamenti della miglior specie. Rap tutt’altro che anarchico, sia chiaro. La crew newyorkese appartiene soltanto a se stessa. Osserva il circondario, assembla frattaglie pescando dai cesti della strada, e non vuole essere parte di credi circostanziali. Kool Keith e Ced Gee alternano boiate e acuti riferimenti personali. Sono poi tanti i guizzi di TR Love e Moe Love. Entrambi attuano manovre ai piatti seguendo direzioni anomale, come accade in “Ease Back”, o nella battle ai controlli nel finale di “Moe Luv’s Theme”; traccia, quest'ultima, celebre per il campione in attacco di “Pussyfooter” di Jackie Robinson. Pensieri sparsi e disarticolati trovano sfogo in “Kool Keith Housing Things”, con momenti calibrati su ritmi esotici che scivolano via.
Well I'm sonically, high bionically
For you dummies, ironically stupid
What are you, Cupid?You steal my rhymes, and then you loop it
Wrong! Back this way
Follow me now, head this way
Into this, while I rap on through this
For many germs, who never knew this
Switches, upside down
E’ il preludio al sax filtrato di “Feelin’ it”, altra biglia pazza estratta da un pallottoliere unico, che anticipa l’andamento sornione, ma non per questo poco esaltante, di “One Minute Less”. Ced Gee semina idiosincrasia per le masse, tra giardini di plastica repellenti e raggi metafisici da schivare, mentre i due dj simulano una trombetta stridula. Memorabili anche “Give The Drummer Some”, nota ai più per il campione dei Prodigy in “Smack My Bitch Up”, e la title track, anch'essa ripresa dagli inglesi cinque anni prima, in “Out Of Space”. Sono omaggi sopraggiunti al di là dell’Atlantico che attestano il peso specifico di un gruppo in fin dei conti esclusivo, al netto di una fisiologica aderenza stilistica ai canoni "classici".
Il passo sconclusionato di “Break North” espone per la dodicesima volta la vera natura della band, persa così com’è nel suo flusso extraterrestre e irraggiungibile, a precedere il colpo di coda inebriante (?) del finale: “Ced-Gee (Delta Force One)”, ovvero come insegnare ai posteri la possibile fusione tra smooth soul e hip-hop.
Seguiranno nei decenni successivi pause, sregolatezze, cavalcate in solitaria e reunion di convenienza. A parte il riuscitissimo “The Four Horsemen” del 1993, la portata artistica di “Critical Beatdown” continuerà a emanare una luce a parte. Un album riconoscibile tra migliaia (come gli altrettanto fondamentali "It Takes A Nation Of Millions To Hold Us Back" dei Public Enemy, "Paid In Full" del duo Eric B. & Rakim e "Strictly Business" degli EPMD), a suo modo inconsapevole del proprio essere spartiacque di un’epopea memorabile della storia dell’hip-hop e di quella simpatica costol(in)a chiamata boom bap.
02/08/2020