Almamegretta

Sanacore 1.9.9.5.

1995 (Anagrumba/ Bmg)
dub, trip-hop, world music

‘Mamma, puttana o brutta copia ‘e n’ommo
Chest’è na femmena int’ ‘a chesta parte ‘e munno,
Ca quanno nasce a cchesto è destinata
E si ‘a cummanna ‘o core d’ ‘a ggente è cundannata’

La Napoli musicale degli anni 90 era un groviglio difficile da districare, un casino particolarmente arduo da decifrare o spiegare. Grazie a “Sanacore 1.9.9.5.” (di solito indicato semplicemente come “Sanacore”) lo sarà un po' meno negli anni a venire. Perché il secondo disco, e indiscutibile capolavoro, degli Almamegretta sembra posizionarsi giusto al centro dei numerosi percorsi che in quegli anni animavano l’elettrizzante scena del capoluogo campano. Nell’intersezione, dunque, tra il rap schietto e stradaiolo che faceva capo a La Famiglia, la militanza combattiva di Officina 99 (alcova di formazioni come 99 Posse e Bisca), ma anche con la musica popolare e la world napoletana dei vari Eugenio Bennato, Avion Travel e NCCP. Per giunta, la band di Raiz è per quegli anni il simbolo ideale della propensione alla contaminazione secolare esperita dalla sua città natìa. E lo era su almeno tre fronti: quello delle immancabili influenze arabe, mediorientali e nordafricane, da secoli parte del Dna partenopeo; quello del dub e del reggae, e quindi della Giamaica; e, nondimeno, quello dell’elettronica inglese, versante Bristol e quindi trip-hop.

Gli Almamegretta avanzano a testa bassa e cuore aperto con un miscuglio che aggiunge quindi dell’altro, tantissimo altro, al fuoco dalle mille sfumature che già infiammava la Napoli multiculturale dell’epoca. La città porosa, dove tutto scorre e viene trattenuto, assorbito e modellato a seconda del verbo di Partenope, accolse il sound ibrido della band di Raiz con stupore e al contempo profondo amore. Il gruppo diventò in questa maniera non soltanto una delle proposte più interessanti di tutta Italia ed Europa, ma anche, inevitabilmente, fonte di ispirazione per “cloni” futuri o addirittura scene. Vengono in mente gli ovvi 24 Grana, fondati proprio nel 1995 di “Sanacore”, ma il debito si estende dall'hip-hop al dub all’elettronica mediterranea, dai Co’ Sang ai Nu Genea, passando per i Dub All Sense.
“Animamigrante” del 1993 già conteneva tutte le idee e le influenze degli Almamegretta. Ed era già parso chiaro di che consistenza fosse il sangue nelle vene di Raiz, che al primo giro di boa si fa Annibale grande generale e rivendica origini, storie perdute. Per quanto l’esordio rimanga ancora oggi un accecante crocevia di suggestioni afro, è con “Sanacore” di due anni dopo che la sintesi sonora operata da Gennaro Tesone (batteria), Gennaro Della Volpe, ovvero Raiz (voce), Paolo Polcari (tastiere, campionatori, produzione) e Mario Formisano (basso e synth bass) raggiunse piena maturità e dette alla luce i suoi frutti più preziosi. Se Stefano Facchielli - noto come D.Rad e prematuramente scomparso in un incidente stradale nel 2004 - è con Paolo Polcari il duo architetto del sound degli Almamegretta, è indiscutibile che il tocco del guru della dub elettronica inglese Adrian Sherwood, che ha prodotto e masterizzato “Sanacore”, lo ha portato a esprimere tutto il suo ipnotico potenziale.

Registrato nell’isola di Procida, ma poi mixato da Adrian Sherwood e Andy Montgomery all'On-U Sound Studio di Londra, grazie anche all’apporto di questi due e delle tecnologie d’oltremanica, “Sanacore” è un disco che pulsa di un sound doppiamente internazionale. In primo luogo, grazie alla sua anima trans-mediterranea, che ne fa un lavoro al confine con la world music, ma ancor più nel senso che brilla di soluzioni produttive e ingegneristiche (del suono) che non temono rivali all'estero. Gli Almamegretta, al netto delle ovvie differenze, sono di fatto dei Red Snapper approdati all’ombra del Vesuvio dopo un lungo viaggio via mare per stabilirvisi in eterno.
Fatte le opportune premesse sulle influenze di carattere squisitamente anglofono, mediorientale e giamaicano, “Sanacore” è un disco comunque profondamente napoletano, sia per le ambientazioni che per l’uso del dialetto da parte di Raiz, e soprattutto un’opera profondamente incastonata nell’immaginario elettronico underground del suo tempo – oltre che avanti rispetto a quello di numerosi colleghi peninsulari.
E’ un album che impiega quattro brani per costruire il suo mondo fatto di bassi profondi, ritmiche dilatate e ipnotiche, echi da una Kingston lontana e beat elettronici. Uno scenario etnico, spirituale e cibernetico dove spadroneggia la voce teatrale di Raiz, a uopo strillone dei quartieri o melismatico muezzin, a suo agio tanto con il rap che con il toast (il recital tipico del reggae giamaicano).

“O sciore cchiù felice”, ossia quello che non tiene radici, come canta Raiz ribadendo ancora una volta la sua anima migrante. La batteria di Gennaro T. è imbottita di echi e detta il passo a un trombone ciondolante e agli intrecci dub dei campionamenti di D. RaD. La voce di Raiz sussurra nell’orecchio messaggi di libertà, poi si stende, emoziona, arriva da tutte le parti, rimbalzata nell’etere da Sherwood – che riprende poi il brano nella bonus track “O sciore cchiù dub”, versione più psichedelica del pezzo, con i bassi ancora più profondi e le trame sintetiche rimaneggiate per acuirne l’essenza straniante.
Nei cinque minuti di “Maje”, la parola napoletana per "mai" diventa un mantra ossessivo. In un’atmosfera ancora più ipnotica, segnata da ritmica spezzata e tastiere speziate, Della Volpe offre una delle sue prove più dolenti, cambiando spesso registro e inflessione, nel ruolo di un amante ferito, ma orgoglioso, che “Maje” tornerà sui suoi passi, mai sceglierà di perdonare.

Maje maje maje maje cchiu 'o vvederraje
Maje maje maje cchiu turnarra
Chello che era na vota 'o munno pe' nuje
Sudore anema e semplicità
Però assieme a sti cose na cundanna se ne va
Si si' femmena muore si nun si forte
Nun ce 'a farraje maje

L’anima mediterranea della band si fa ancora più forte nell’evocativa “Pe' dint' 'e viche addò nun trase 'o mare”. Dopo un breve abbrivio elettronico, Polcari inizia a spargere arabeschi di tastiere che, insieme ai melismi da santone di Raiz, ci portano in un dedalo di stradine mediorientali dall’odore inebriante. Mentre Raiz rivendica ancora una volta l’appartenenza al Dio Sole, la fede incrollabile per l’anima vibrante della sua città, dove anche i vicoli in cui non entra mai il mare liberano sogni da infrangere o cavalcare a seconda degli stati d’animo.

Siamo invece decisamente a Napoli per la title track “Sanacore”, parola napoletana che sta per un medicamento folcloristico capace di risanare il cuore. Gli ospiti, Daniele Sepe al flauto e Giulia Sacco ai cori, ne fanno praticamente una canzone tradizionale napoletana sulla scia della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Le venature reggae e dub sono ridotte al minimo, così come Raiz sceglie di limitare i suoi interventi alle strofe. Questo lavoro di sottrazione ne fa un corpo in parte alieno al disco, che è stato però capace di scolpirsi nella tradizione locale, grazie non solo alla freschezza ruspante degli arrangiamenti, ma anche alla scanzonata ironia tutta partenopea del testo.
Una volta generato il suo mondo iper-contaminato e diviso tra spirito e carne, nelle sei successive tracce “Sanacore” si espande verso nuove possibilità, conturbanti melodie e militanza a viso aperto. È questo il caso della struggente “Ruanda”, sette minuti tensivi che si propagano sottopelle e ricordano certe cavalcate elettroniche dei Massive Attack. Alla band campana non serve un testo vero e proprio per politicizzare il suo fantasma elettronico, per colpire il silenzio dell’Occidente verso il genocidio del paese africano bastano alcune parole di Raiz mescolate nell’impasto sonoro insieme a echi di cori Tutsi (l’etnia massacrata dagli Hutu).

Il nucleo rotante dell’album è tutto nella hit indimenticabile degli Almamegretta, nella ballata triste al calar della luna che sparge sentimenti interrotti, passioni indescrivibili e prezzi da pagare per un’eccessiva voglia di libertà sessuale da sussurrare nell’orecchio con la voce rauca e possente di Raiz. Il passo di "Nun te scurdà" è ancora una volta estremamente dub, con Peter Tosh che pare riaffiorare dalle acque del golfo di Napoli per indicare la via agli Almamegretta mentre Sergio Bruni (che Raiz omaggerà secoli dopo in questo modo) "raccomanda" le parole da spendere per descrivere le pene del cuore di una donna, infranto a mo’ di specchio rotto dalle lame delle malelingue che non ne tollerano l’autonomia, che non sopportano quel “fuoco ca te nasce ‘mpietto”. Il ricordo di un’identità sottomessa alle costrizioni della vita assume la parvenza di una parabola da tramandare ai posteri per un futuro più denso e funge da leit-motiv di una canzone memorabile.

La tradizione, nella sua accezione più popolare, emerge in “Ammore nemico”, brano nel quale spunta anche la voce di un gigante della musica napoletana del Novecento: Marcello Colasurdo. La storica anima degli Zezi è per l'occasione cantore e pastore della canzone più corale del disco, per una sorta di invocazione agitata da Raiz dal centro di un mercato rionale, tra ugole afflitte e battiti zingari.  Seguiranno dischi di successo come l’osannatissimo “Lingo”. La carriera degli Almamegretta, nonostante alcune pause, è peraltro tuttora celebrata dal macrocosmo scugnizzo come un esempio luminoso da cui attingere fiamme e linfa. “Sanacore” rimarrà però il momento più alto nella storia di un gruppo tra i più vibranti e carnali della musica italiana degli anni 90. Ma non solo.  

04/05/2025

Tracklist

  1. 'O sciore cchiù felice
  2. Maje
  3. Pé dint' 'e viche addò nun trase 'o mare
  4. Sanacore
  5. Ammore nemico
  6. Scioscie viento
  7. Ruanda
  8. Nun te scurdà
  9. Se stuta 'o ffuoco
  10. Tempo
  11. 'O sciore cchiù Dub (Bonus Track)


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