Undici settembre 2001. In un traghetto diretto a Manhattan, Gerard Way sta scarabocchiando qualcosa su un foglio, probabilmente del lavoro arretrato per la Cartoon Network, azienda per cui da qualche tempo fa l’animatore. Nella mente di Gerard molte cose turbinano, la maggior parte delle quali riguardanti il mondo della musica. Vorrebbe tanto scrivere canzoni, formare una band e magari diventare famoso, ma per ora c’è solo una monotona e stanca routine nell’anonimato. E niente musica. A un certo punto, l’esplosione e il fumo che hanno cambiato la storia recente. Gerard non vede gli aerei schiantarsi. Vede principalmente il fumo nel mezzo del quale il traghetto cerca ancora stancamente di farsi strada, per raggiungere una destinazione che non ha importanza, non più. “There was about three-or four-hundred people around me, and I was right at the edge. All these people behind me, they all had friends and family in those buildings. I didn’t”.
È in questo preciso istante, collegato a questa drammatica presa di coscienza, che, parallelamente alle sorti del mondo, la storia dell’emo si avvia verso il suo punto di non ritorno. Way si sobbarca il ruolo di Messia di una generazione, avverte il peso di tutte quelle vite spezzate e ferite di cui lui ignorava il vissuto, ma a cui in qualche modo si sentiva accomunato. La vita era troppo preziosa per lasciarsela sfuggire in un noioso lavoro. E poi bisognava superare questo trauma assurdo, magari esorcizzando tutte le ansie e le paure per il futuro.
In capo a poche settimane, Gerard mette su una band: chiama a raccolta amici e gente che sapeva quantomeno imbracciare uno strumento, anche se sprovveduta di tecnica e conoscenze musicali avanzate (lo stesso Way non sapeva cantare e suonare la chitarra contemporaneamente). Matt Pelissier, batterista, accoglie per primo l’invito. Poco dopo sarà la volta di Ray Toro (chitarra), seguito da suo fratello Mikey, che sapeva cavarsela al basso. Nascono i My Chemical Romance. Sono giorni di incredibile fermento. In una settimana prende vita il loro primo pezzo in assoluto, “Skylines And Turnstiles”: gli occhi ancora accecati da quella strage e un testo che ne rivive il dramma filtrandolo attraverso un’emozionalità diretta e spietata. Nessuno, né Jay-Z, né William Basinski, né Wilco, tanto per citare i “reduci” più famosi dell’11 Settembre, ha saputo fornire un’immagine tanto cruda e drammatica di quell’avvenimento: “Steel corpses stretch out towards an ending sun, scorched and black. It reaches in and tears your flesh apart. As ice cold hands rip into your heart”. È uno scenario apocalittico dalle tinte fantascientifiche, una parata di cadaveri metallici sotto un sole morente, tra carne sventrata e densa oscurità. Il brano è un autentico capolavoro, grido disperato di un sottobosco americano che vuole salire in superficie, e poi ancora più in alto, seguendo il percorso inverso di quei grattacieli crollati al suolo. La voce di Way è sgraziata, cattiva eppure piena di melodia, da lacrime agli occhi, flusso torrenziale senza un attimo di pausa. È emo come non si era mai sentito: restano quei germi di rabbia e angoscia che animavano le band degli anni Novanta, ma lo sguardo è tutto proiettato verso il futuro, l’esatto contrario dell’introversione e della chiusura in sé stessi che costituivano la cifra stilistica di quei gruppi.Tre mesi dalla formazione della band e il disco di debutto è già fuori (esce il 23 luglio del 2002): oltre alla tempestività, di I Brought You My Bullets, You Brought Me Your Love stupisce la superba qualità del materiale. Una chitarra straziante dal sapore gotico e ancestrale, in mezzo a brusii e interferenze, apre il disco (“Romance”). È solo un minuto, ma introduce perfettamente nell’atmosfera dell’album, fatto di inquietudine, desolazione, scenari spettrali. Eppure spiazza, dopo questi languidi riverberi, l’attacco killer di “Honey, This Mirror Isn’t Big Enough For The Both Of Us”. Benché non basti a renderne tutte le sfumature, emo è l’unica parola che venga in mente per definire questi continui cambi di ritmo, tra frenate, ripartenze, sovrapposizioni vocali da perderci la testa, e tanto altro. Way sputa parole a raffica, in un delirio psicotico, egocentrico, nel quale la finzione diventa l’unica strada possibile per continuare a vivere.
Niente però è paragonabile a “Vampires Will Never Hurt You”, brano-simbolo dell’intero disco nonché base su cui i My Chemical Romance costruiranno la loro carriera. I vampiri ossessionavano Gerard sin dai tempi alla Cartoon Network, ma è semplicemente incredibile la rielaborazione e attualizzazione che ne fa in questo brano. Il testo orrorifico – e chilometrico – è esistenzialismo per la generazione post-11 Settembre: il profluvio di punti interrogativi di “And If” crea una tensione insostenibile, in quanto sono dubbi irrisolti, ansie generate da orrori che potrebbero concretizzarsi da un momento all’altro. I vampiri, come recitava un vecchio film, hanno cambiato faccia. Ed è interessante che, a detta di Way, essi rappresentino gli individui che sfruttano gli altri e le loro tragedie, per capitalizzare sempre più guadagni. Così il finale, che si innalza con una progressione irresistibile, tra promesse e scongiuri (“I’ll never let them, I’ll never let them hurt you, not tonight”), suona come una supplica a non essere contaminati dagli spietati ingranaggi di questa società.
Il video-capolavoro, lontano dalla spettacolarità a cui ci avrebbe abituato, vede la band in una stanza scura, tanto stretta che non si respira: un microfono illuminato nel buio viene afferrato da un epilettico Gerard Way qui in versione Ian Curtis, mentre sullo sfondo si susseguono immagini tratte da qualche film sui vampiri. È un video permeato da un senso di angoscia, ma in nessun momento riusciamo a prenderlo sul serio: in definitiva ciò che ne rende unica l’estetica è lo humour cruento e grottesco. La musica dei My Chemical Romance accoglie chi è deluso dalla realtà in cui è costretto a vivere, ma non si crogiola sulla rassegnazione, bensì fa dell’orrore un fatto di cui ridere, per superarlo. Altro picco emotivo è “Drowning Lessons”: solo l’incipit sarebbe un tuffo al cuore, con le sue cascate di chitarra, non troppo distanti dallo shoegaze, che stendono il tappeto perfetto per la voce di Way, qui alle prese con una performance coinvolta e commossa. Ma ancora una volta è il testo a colpire: lungi dall’essere una banale canzone d’addio, offre immagini di una bellezza adamantina. “Without a sound I took her down, and dressed in red and blue I squeezed imaginary wedding gown that you can’t wear in front of me”. E se “Early Sunsets Over Monroeville” è una ballata un po’ più lunga del necessario, ci pensa “Headfirst For Halos” ad assestare un altro pugno in faccia: musicalmente è una traccia più diretta, con una melodia ben definita, ma dentro vi sono i semi di ciò che i MCR sarebbero stati qualche anno dopo. Il testo gira pericolosamente dalle parti del suicidio, descrivendo scene di esasperata tragicità: “I think I’ll blow my brains against the ceiling, and as the fragments of my skull begin to fall on your tongue like pixie dust, just think happy thoughts and we’ll fly home”.
L’ultimo colpo di classe è affidato alla conclusiva “Demolition Lovers”: l’inizio è quasi post-rock, con una chitarra reiterata sullo stesso languido tono, la batteria tentennante e la voce di Way filtrata. Il brano cresce gradualmente di intensità fino a raggiungere il suo climax a 2:50. Poi un improvviso silenzio. Dura un secondo, ma il suo effetto è fortissimo. Una lenta chitarra risorge dalle ceneri del delirio appena concluso, c’è spazio per un altro interplay minimalista di chitarra e batteria, prima del catartico finale. È un pezzo dalla struttura chiaramente prog, un autentico saggio su come gestire propriamente il contrasto soft/loud senza scadere nella noia.
I Brought You My Bullets... è un disco indie. Fallirà a entrare in classifica praticamente ovunque. Eppure ci consegna un prezioso documento che mostra la genesi di una delle band più importanti dello scorso decennio. Non esiste discorso musicale sui Duemila che possa prescindere dal considerare l’impatto che i My Chemical Romance hanno avuto sulla loro generazione. Questo debutto, forse acerbo, sicuramente prodotto non benissimo, ci mostra una band che sembra presentire il futuro che la attende, e fa di tutto perché un giorno, in retrospettiva, si possa tributargli l’importanza che merita.
Il periodo che segue la sua pubblicazione è il più duro per Way. In particolare grazie a Myspace, il loro nome inizia a circolare e i concerti vedono il pubblico ingrandirsi con costanza. Presto i My Chemical Romance si trovano a suonare davanti a folle considerevoli e il leader comincia a sentire il fantasma del palco. L’insicurezza cronica e lo stress fisico della tournée lo spingono a rifugiarsi nell’alcol e nelle droghe, spesso lo si ritrova a salire sul palco in stati allucinati e gridare frasi sconnesse verso il pubblico fra una canzone e l’altra.
Ciò porta alla nascita di tensioni fra il cantante e il resto della band, che nel frattempo ha visto Frank Iero entrare in pianta stabile come chitarrista ritmico, dopo aver già suonato in un paio di brani del disco di debutto. Nonostante il clima, arriva presto un contratto con la Reprise e nel 2004 esce il secondo album, Three Cheers For Sweet Revenge.
La formula del debutto viene lievemente smussata, i brani sono meno frammentati, benché non rinuncino del tutto alle svolte a sorpresa. A guadagnarne maggiormente è l’impatto: ora che c’è un budget sostanzioso a disposizione, quello che prima sembrava un pur valido studio s’è trasformato in dipinto compiuto. Le chitarre sono roboanti ma dinamiche, le strutture elaborate, il suono dà nuovo corpo all’emo. Un corpo che invero non verrà mai accettato dai vecchi puristi della corrente, rimasti ancorati ai dettami di etichette come la Subpop e a tutt'oggi infastiditi dal fatto che quella parola, un tempo esclusiva dei “loro” Sunny Day Real Estate, a un certo punto sia stata sprecata per questa “robaccia”. Come in tutte le arti però, la musica muta e si evolve, e chi rimane indietro a crogiolarsi nella nostalgia non può pretendere di stabilirne le coordinate. La parola emo è legittima per i My Chemical Romance quanto lo era stata per i loro antenati, lontani o meno che li si ritenga.
“Helena” svela la nuova formula punk-pop, con strofa velocissima e rallentamento epico nel ritornello, ma trova spazio anche per uno stacco con voce filtrata e feedback. Way dedica il brano alla sua defunta nonna, ma il testo è un incomprensibile intreccio di metafore che somiglia semmai a una canzone d’amore, forse più cruenta della media (“Can you hear me? Are you near me? Can we pretend to leave and then, we’ll meet again, when both our cars collide?”). “I’m Not Okay” è un altro punk melodico spiegato a gonfie vele, il cui testo vede Way struggersi per una ragazza già impegnata. Gli viene abbinato un video a tematica scolastica in cui scorrono in sovraimpressione parole a sostegno dei ragazzi emarginati, dei solitari e delle vittime del bullismo. È questo senso di supporto emanato dalla band che spingerà tanti ragazzini sparsi per il mondo a immedesimarsi nella loro musica e che in generale conferirà al nuovo emo un tale potere aggregante.
“Thank You For The Venom” replica la formula per vomitare sulla religione (“Preach all you want but who's gonna save me? I keep a gun on the book you gave me. Hallelujah, lock and load”), mentre “The Ghost Of You” è forse il momento più introspettivo. Maestosa ballata che inizia con liquidi arpeggi di chitarra per poi esplodere in un ritornello corale, può essere interpretata come lo struggimento per un amore finito o per la morte della persona cara. Il testo è nebuloso e ci sono un paio di interrogativi che sembrano ancora una volta sottintendere il suicidio come possibile soluzione: “And all the things that you never ever told me, and all the smiles that are ever gonna haunt me, never coming home, never coming home. Could I? Should I?”
Il video, una tragica scena di guerra, costa circa un milione di dollari, a riprova di quanto l’etichetta creda nel progetto. La fiducia è ben riposta, perché in breve il disco entra nelle classifiche. Non raggiunge posizioni di vertice, ma si piazza al numero 28 negli Usa, al 34 in Gb e rimane nelle fasce intermedie abbastanza a lungo da superare i due milioni di copie vendute nel mondo.
L’album non è però solo i quattro singoli di cui sopra. “You Know What They Do To Guys Like Us In Prison” è un autentico incubo il cui testo narra proprio quello che il titolo sembra suggerire: le violenze sessuali che spesso si perpetrano nelle prigioni. Riaffiora il primo album, con le chitarre imbizzarrite che guidano una fuga a perdifiato in cui Way, Iero e Toro intrecciano le loro voci in un gioco di urla e declamazioni. “The Jetset Life Is Gonna Kill You” mette a nudo le difficoltà personali di Way con la gestione del crescente successo, su uno degli arrangiamenti più atipici dell’album, con intro di organo, ampio utilizzo di phaser, e un arpeggino dal sapore di carillon nella parte centrale. “Hang ‘Em High” è una sorta di horror-western, tanto convulso che gli strumenti sembrano venire maciullati. “I Never Told You What I Do For Living” conclude il tutto entrando nella testa di un killer (“Touched by angels, though, I fall out of grace, I did it all so maybe, I'd live this every day”), prima che lo stesso finisca ucciso.
È disonesto ritenere che tutto ciò sia semplice punk da classifica, perché il punk da classifica non è mai stato così violento. L’atmosfera è profondamente nevrotica, tinta di gotico, quasi sempre sull’orlo del collasso. L’esposizione è vorace, sgolata, non lascia un attimo di tregua. Le chitarre vengono costantemente strapazzate. I Green Day suonano come chierichetti innanzi a un simile uragano, ma il punto è che si tratta di un campionato differente. Quella dei My Chemical Romance è forse l’unica vera forma di rock americano che negli anni Zero abbia saputo essere mainstream senza svendersi a un suono rassicurante e anestetizzato. Se c’è un disco che ha fatto epoca, quello è Three Cheers For Sweet Revenge.
Pelissier lascia la band e viene rimpiazzato all’inizio del 2005 da Bob Bryar. Il primo parto della nuova line-up è una collaborazione con gli Used, una simpatica cover di “Under Pressure” pubblicata esclusivamente su formato digitale. È un omaggio probabilmente non casuale, se si considera l’influenza che il sound dei Queen avrà sul successivo album, e quella che David Bowie riveste da sempre per la figura camaleontica di Gerard Way.
The Black Parade esce il 24 ottobre 2006 e il mondo si inchina alla band. Il singolo “Welcome To The Black Parade” si piazza al numero 9 della classifica americana, e ancora meglio va in Gb, dove tocca la vetta per due settimane: nessun brano di derivazione emo c’era mai riuscito e plausibilmente più nessuno ci riuscirà.
In breve l’album è al numero 2 in Gb e negli Usa. Venderà circa tre milioni di copie in un anno, in un mercato musicale morente e avverso alla musica rock. Way e soci sono ormai gli alfieri indiscussi della scena emo, i video appariscenti che accompagnano i brani li vedono truccati e tinti in colori improbabili e violenti. Il look neogotico ha un sapore fortemente kitsch e il suo senso di appartenenza genera scene di isteria fra i più giovani. Meno solido e continuo del suo predecessore, The Black Parade rimane un progetto importante e estremamente ambizioso, una rock opera in piena regola. Il protagonista è un malato di cancro che, dopo la morte, riflette sugli avvenimenti che hanno segnato la sua vita.
I due brani più famosi non rappresentano forse il miglior biglietto da visita: “Welcome To The Black Parade” affoga l’oscurità a cui la band aveva abituato in eccessi alla Queen, con arrangiamenti orchestrali, cori operistici e chitarra alla Brian May, mentre “Teenagers” sfoggia un pericoloso retrogusto Offspring. Le melodie sono tremendamente orecchiabili e alla fine riescono a vincere gli scetticismi, ma quanto a originalità non si può certo dire che mostrino le vere capacità del quintetto.
La cui creatività a ogni modo è lontana dall’esaurirsi, come dimostra una scaletta ancora capace di idee e sentimenti: la muscolosa ballad “I Don’t Love You”, la struggente marcia pianistica di “Cancer”, il delirio cabarettistico di “Mama” (dove per un attimo, dopo il primo ritornello, la voce isterica di Way fa echeggiare in lontananza i tratti più teatrali di “The Wall”). In chiusura uno dei vertici di Way, “Famous Last Words”, eroico power pop che mette in contrasto strofa dal tono malinconico e ritornello a squarciagola. Le parole riassumono un po’ tutto il significato e l’estetica della band: “I am not afraid to keep on living, I am not afraid to walk this world alone”. È il definitivo messaggio di rivalsa e redenzione che Way lancia ai suoi giovani accoliti.Abbandonata anche dal nuovo batterista, la band decide di non rimpiazzarlo e, sostenuta da alcuni turnisti, affronta il nuovo album con una formazione a quattro. Danger Days esce così sul finire del 2010, dopo una gestazione travagliata, che ha visto la band ricominciare da capo dopo aver registrato quasi trenta canzoni.
Si ammirano il coraggio, la capacità di mettersi in discussione e soprattutto un pugno di grandi canzoni. Il concept è questa volta di derivazione fantascientifica: nella California del futuro un gruppo di ribelli si impegna a contrastare una potente corporazione, che sta espandendo il proprio controllo sulla vita delle persone, cancellandone a poco a poco le emozioni. È un tema che ricorda vagamente quello dei musicisti fuorilegge ideato quasi tre decadi prima dagli Styx di “Kilroy Was Here”, album di cui sono condivise sfrontatezza e contaminazioni elettroniche. La data in cui la vicenda è ambientata, 2019, è curiosamente vicina al momento in cui il disco viene inciso e la dice lunga sulla considerazione che Way ha della società circostante.
Il singolo “Na Na Na” è un tormentone corale che se si ama la voce di Way piace quasi in automatico, ma il suo refrain elementare mette a dura prova la pazienza di chi non è abituato a una simile faccia tosta. Meglio allora il lento “Sing”, con gli stacchi orchestrali e lo spigoloso ritmo del ritornello, o “The Only Hope For Me Is You”, col suo tagliente riff sintetico. Uno dei brani di cui la band è più fiera è “The Kids From Yesterday”, con tappeti di tastiera, cori gentili, drum machine, batteria dal suono di latta e atmosfera ariosa. I My Chemical Romance più depressi sono un ricordo, qui la musica è luminosa, emana spazi e vento fra i capelli. È ormai difficile anche considerarli emo, Way e soci si sono semplicemente ritagliati uno spazio a parte.
“Summertime” è così uno dei loro brani più piacevoli e delicati, a un passo dal britpop, mentre “Planetary (Go!)” è un ibrido dance-rock che sarebbe risultato impensabile fino a un paio d’anni prima. Si chiude con l’apoteosi glam di “Vampire Money”, che dopo un’intro a presentazione dei vari musicisti (come a suo tempo accadeva in “The Ballroom Blitz” degli Sweet), si scatena fra pianoforte boogie, cori da stadio e assoli rock vecchio stampo.
L’album non ripete il successo del precedente, perché quattro anni d’assenza sono tanti quando si tratta di mode così rigidamente delineate, tuttavia ottiene il numero 8 negli Usa e si piazza in top 20 in Gb, superando senza patemi il milione di copie. Segue un lungo tour che vede la band impegnata fino all’inizio del 2012, quando viene rivelato l’inizio delle sessioni per il nuovo album, poi confermate in ulteriori interviste durante il corso dell’anno.
In settembre il cambio di programma: Iero annuncia il progetto Conventional Weapons, una serie di cinque singoli in vinile, per un totale di dieci pezzi, in seguito riuniti in un apposito box in edizione limitata. Si tratta di una parte del materiale registrato all’inizio delle sessioni di Danger Days e poi accantonato.
Chiamarla una raccolta di scarti risulta offensivo: pur altalenando tra alti e bassi, questa compilation offre alcune perle degne di essere affiancate ai loro classici. Ma, cosa più importante, ci dà una preziosa chiave di lettura di quel frenetico e tormentato periodo intercorso tra la pubblicazione di The Black Parade e la gestazione di Danger Days: situato al confine tra questi due dischi diversissimi, Conventional Weapons trova una sintesi invidiabile in termini di sound, riducendo da un lato la teatralità drammatica del primo e anticipando gli spunti del secondo in forma meno pop. Ciò che ne risulta è un suono compatto e organico, che riprende per certi versi le caratteristiche che avevano fatto la fortuna di Three Cheers for Sweet Revenge, adattate al nuovo formato arena-oriented. Il miglior esempio di questa transizione è “The Light Behind Your Eyes”, una delle più belle ballate scritte dai MCR, qui al loro picco emotivo più umile e sincero: i delicati archi in odor di Patrick Wolf, la languida chitarra su cui si innestano bellissimi contrappunti pianistici, la melodia dimessa e malinconica la rendono un gioiello unico nel repertorio della band. Con un po' di visibilità in più, sarebbe potuto diventare uno dei loro tanti inni. Altro pezzo da novanta è “Ambulance”, con i suoi irresistibili cori e il ritornello trionfale.
L'uno-due di “Boy Division” e “Tomorrow's Money” rappresenta il momento più diretto e vicino al pop-punk del secondo disco. Notevole la prima, satura di sovrapposizioni e filtraggi vocali, mentre della seconda segnaliamo la decisa dichiarazione di intenti rivolta contro chi li vorrebbe vedere come mero fenomeno di marketing: “I stopped bleeding three years ago/ While you keep screaming for revolution/ Because rebellion's not a t-shirt you sell/ You keep your money and I'll see you in hell”. Tra il serio e il grottesco, “Gun” si rivela vitale e trascinante, mentre “The World Is Ugly” evita di un soffio il patetismo, nonostante la struttura più ordinaria e regolare annacqui il messaggio drammatico che vorrebbe veicolare.
In trentotto minuti, Conventional Weapons distilla un significativo campione dei molteplici aspetti che hanno caratterizzato la musica dei My Chemical Romance nel corso del tempo, costituendo sia una buona introduzione per chi si avvicina a loro, ma soprattutto un'interessante retrospettiva per chi ha affrontato già la loro discografia e voglia rilevarne un trait-d'union.
L'avventura giunge così al capolinea. Gerard Way non si trova più a suo agio con il progetto, vorrebbe fare musica differente, probabilmente gettandosi a capofitto in quel britpop accennato in alcun brani di Danger Days. La sua passione per la musica britannica, degli anni Novanta in particolare, non è del resto mai stata un mistero, come confermato dalla cover di “Common People” dei Pulp, eseguita più volte dal vivo per il tour di quel disco.
L'annuncio dello scioglimento arriva il 22 marzo 2013. Circa un anno dopo esce una raccolta contenente tutti i successi, alcuni demo, più l'inedito “Fake Your Death”, brano pur piacevole ma che nulla aggiunge alla loro vicenda.
Autori: Gioele Sforza (introduzione, “I Brought You My Bullets”, “Conventional Weapons”), Federico Romagnoli (“Three Cheers For Sweet Revenge”, “The Black Parade”, “Danger Days”, cenni sullo scioglimento)
I Brought You My Bullets, You Brought Me Your Love(Eyeball, 2002) | |
Three Cheers for Sweet Revenge(Reprise, 2004) | |
Life on the Murder Scene(live, Reprise, 2006) | |
The Black Parade(Reprise, 2006) | |
The Black Parade Is Dead!(live, Reprise, 2008) | |
Danger Days: The True Lives of the Fabulous Killjoys(Reprise, 2010) | |
Conventional Weapons(Warner Bros, 2013) | |
May Death Never Stop You (antologia, Warner Bros, 2014) |