I Black Rebel Motorcycle Club indossano giubbotti di pelle, hanno sguardi da belli e dannati, e nutrono un debole per le Harley Davidson, tanto da mutuare il proprio nome da una delle gang di motociclisti che animarono “Il selvaggio”, capolavoro cinematografico datato 1953, interpretato da un indimenticabile Marlon Brando. Sono californiani, suonano assieme dal 1998 e sono diventati rapidamente una delle più clamorose next big thing a stelle e strisce.
L’iniziativa è partita da Peter Hayes, chitarrista con trascorsi negli iper psichedelici Brian Jonestown Massacre. Peter ha scelto di condividere il proprio personale progetto musicale con il compagno di studi Robert Turner, bassista con il quale si distribuisce le parti vocali. In realtà Turner di cognome fa Been, ma ha scelto un nome d’arte per non approfittare della fama del padre, Michael, noto nei circuiti underground per essere stato il leader dei Call. Il terzetto è completato dal batterista Nick Jago, l’unico inglese del trio.
Messi sotto contratto dalla Virgin, i tre del circolo motociclistico lanciano sul mercato un esordio pazzesco, che non tarderà a diventare uno dei manifesti del nuovo (anche se revivalista) rock americano. L’estetica si ispira apertamente a significative citazioni del passato, come l’attitudine hard blues- rock’n’roll dei Rolling Stones e gli aromi dark- wave dei Jesus And Mary Chain, ai quali vengono accostati sempre più spesso.
In attesa che si affranchino da tali ingombranti paragoni, Hayes e compagnia si dirigono a tutto gas dal proprio avamposto californiano verso il mondo intero, con l’intento di diffondere il verbo di un rinnovato approccio al garage-rock. Un approccio che centrifuga modelli del passato, attualizzandoli ad uso e consumo del pubblico del nuovo millennio.
“B.R.M.C.” contiene una serie di canzoni che non tarderanno a diventare nuovi inni generazionali, fra queste spiccano per efficacia il turbinio simil punk “Whatever Happened To My Rock’n’Roll” e l’iper trascinante “Spread Your Love”. Altre frecce appuntite sono l’iniziale “Love Burns”, la successiva “Red Eyes And Tears” e soprattutto “White Palms”, caratterizzata da un basso roboante. Il disco è vivo, la sensazione è quella di stare in garage con la band durante una session, a diretto contatto con le vibrazioni selvagge provocate da riff contagiosi e linee di basso torbide e sensuali.
Per bilanciare la grande energia che scaturisce dagli episodi più tirati, il trio inserisce dei notevolissimi mid-tempo (“Awake”, “Rifles”) più un paio di avvolgenti ed intense ballad elettriche ad alto contenuto emozionale (“As Sure As The Sun”, “Head Up High”), nelle quali le figure melodiche vengono sempre condite dai feedback elle chitarre.
La polverosa “Salvation” lascia soltanto presagire eventuali scenari futuri, chiudendo in maniera quasi spirituale un album da considerare fra i picchi musicali del 2001, eccellente nel miscelare new-wave e garage-rock, proponendo quello che potrebbe diventare un riconoscibile marchio di fabbrica.
06/02/2014