Un movimento verso l'alto, l'innalzarsi di un uccello. Inizia come potrebbe iniziare una favola, tappeto sintetico e flauto, poi entra quella voce che ti sembra di aver già sentito mille volte. E invece è la prima, perché si tratta di un esordio per questo Micah P. Hinson, ormai sulla bocca di tutti quei neo-prewar-post folkster che ci ritroviamo a essere in questi anni. Non raccontiamocela, semplicemente è dagli anni 90 che questa storia del folk rivisitato, rimasticato, resuscitato, decontestualizzato, avanguardizzato, continua a toccarci perché ha, in casi come questo, la forza di quel pop che sfiora le sempre tese corde dell'emozione. Batte dove il dente duole, con sottile piacere. Ottime canzoni con attitudine figlia/madre del tempo attuale, dischi di autori nel vero senso della parola, che hanno scelto una veste in parte folk per il loro mondo poetico. E' bastato qualche nome su cui puntare, Will Holdam, Bill Callahan e di recente Devendra Banhart , per dare senso e lustro a qualcosa che, come al solito, è in parte invenzione e in parte segno dei desideri di chi la musica la fa, la ascolta, la vende, oppure di musica scrive.
Micah è giovanissimo, ma sa scrivere con un senso perfetto della sintesi e della melodia immediata. Ha una voce riconoscibile pur ricordando Smog in modo impressionante, e quella capacità di appassionarsi, contenersi, sprofondare nell'intimo che è dei grandi cantautori. Dalla sua ha anche una biografia tormentata, interessi letterari pseudo- maudit e gli Earlies (il "Gospel Of Progress"), che spalmano queste gentili strutture con arrangiamenti attenti soprattutto a valorizzare il pathos e le sfumature delle canzoni. Verso l'alto, a sospendere nella classicità canzoni-colibrì ruggenti di desiderio.
"Close Your Eyes" introduce la serie di crescendo, figura musicale principe di questo disco. In questo, come in altri casi, si tratta di progressiva stratificazione strumentale: synth, fender rhodes, chitarra acustica, voci femminili, archi, chitarre elettriche, batteria che fa scattare una marcia, mentre le elettriche salgono e l'intensità annuncia l'apertura dei cuori. Come in "Beneath The Rose", Cohen arpeggiato veloce, contrabbasso pizzicato country, slide emotiva, raddoppiamento acustico, fisa, piano che rotola come se Glass jammasse con i Black Heart Procession e insieme trovassero un po' di calore. Quante volte l'ho associata istintivamente a chi mi ha fatto perdere la testa in questi ultimi giorni, e scusate la parentesi intima ma e' per rendere l'idea.
Poi si va a insistere con i crescendo: "Don't You (Part 1&2)" è il primo tassello di ballata alla Tom Waits dalla struttura semplice e ripetuta che, attraverso un ponte di note-plettro molto indie, sfocia in un finale epico, un wall of sound che consegna l'intimo al corale.
Questo senso religioso, insieme raccolto e disteso, che tinge di sincerità ogni passo, si contrae in altri episodi, come la oldhamiana "At Last, Our Promises", mesta ma spalancata sul dramma con sguardo sottilmente cinematografico, mentre il caos dell'orchestra dipinge lo scenario di una caduta: "Yeah, he is a cinematographer". Tornano le suggestioni Black Heart nel valzer di "Stand In My Way", ma Micah sembra sempre con un raggio di sole in fronte, anche quando inscena voli notturni. Che dire poi di "Patience", nonostante la sua immensa semplicità uno degli apici di questo disco, forse perché qui Micah finalmente gratta la sua voce, sostenuto da quattro accordi di acustica, fondo d'organo e qualche nota sparsa di piano, finché il brano s'impenna Mogwai deragliando le intenzioni Waits.
La conclusione, "The Day Texas Sank To The Bottom Of The Sea", è distacco, come vedere all'orizzonte l'ultimo volo della stagione. Distensione, rilascio, rintocchi d'elettrica, archi che s'adagiano, organo che scalda e annuncia il movimento, lenta batteria, cori e piano che trascinano via l'attore dopo il suo "a parte" e lasciano il palcoscenico vuoto. Il pubblico sospetta che queste siano anche le sue emozioni, termina l'applauso, esce dalla sala e rifluisce nella hall, poi finiscono tutti fuori dal teatro: è un grande stormo di uccelli quello che si vede uscire. Per l'ultimo volo della stagione.
18/12/2006