Micah P. Hinson

Micah P. Hinson

Il folk che non mente

Una voce che sembra venire dal profondo del tempo. Una biografia dall’aura di poeta maledetto. La bellezza come ideale e come ossessione. Micah P. Hinson ha raccolto il lascito del songwriting americano degli anni Novanta, puntando deciso al respiro del classico. Una traiettoria sospesa tra tormento e anelito alla pace, all’inseguimento della propria musa con una mutevole compagine di sodali

di Gabriele Benzing

The day Texas sank to the bottom of the sea

Il chiarore dell’alba filtra impietoso tra le lenzuola sfatte del motel. Il letto è vuoto. Lei se n’è andata: il ragazzo lo sa bene, eppure è come se la seduzione di quell’ombra continuasse a seguirlo ovunque vada. Non ha più casa, non ha più denaro, non ha più innocenza: è solo grazie all’aiuto di qualche parente che gli è stata risparmiata un’altra notte sotto un ponte.
No, non è stato tutto soltanto per una donna: è la bellezza il pensiero dominante che l’ha avvinto, quella bellezza che sembra non poter esistere senza tormento. Non ha esitato a bruciare ogni cosa, per inseguire quell’attrattiva. Solitudine, droga, carcere: a poco più di vent’anni non sembra rimanere più nulla da salvare, nella spirale della vita di Micah Paul Hinson. E invece, la sua voce è riuscita a trovare la strada per arrivare a pugnalare anche il nostro cuore.

Non poteva immaginare quello che sarebbe accaduto, la prima volta che i loro sguardi si sono incontrati. Probabilmente non gli sarebbe neppure importato saperlo.
Lui, Micah, non era altro che un ragazzo del college di Abilene, Texas, con la passione dello skate ed un padre professore di psicologia. Della sua città pensava esattamente quello che ne aveva scritto Kerouac in “On The Road”: “perché diavolo qualcuno dovrebbe mai vivere qui?”.
Lei, Melissa, era una modella di “Vogue” troppo abituata alle pillole, tornata ad Abilene dopo avere trovato morto di overdose il marito Wes Berggren, chitarrista dei Tripping Daisy.
“Ero abituato a dovermi dare da fare perché qualche ragazza si interessasse a me, e all’improvviso questa donna stupenda mi ha preso nelle sue braccia e semplicemente ce ne siamo andati insieme. Niente difficoltà, niente urla, niente cuori infranti: è stato così facile”.
Ma il prezzo da pagare era molto più alto di quanto Micah potesse credere: trascinato nella dipendenza, condannato per falsificazione di prescrizioni mediche, oppresso da una cupa depressione, Micah si è trovato ben presto alla deriva. “Dopo che tutti i soldi erano finiti, dopo che tutte le carte di credito si erano esaurite, dopo che la mia macchina era rimasta ferma e dopo che eravamo stati sfrattati dal nostro appartamento e non avevo più né amici né famiglia, lei ha deciso di lasciarmi ed andarsene”.

In quella squallida camera di motel, a Micah è rimasta soltanto una cosa: un’anima capace di tradurre il proprio struggimento in versi dalla viscerale semplicità. È da quando aveva dodici anni che ha cominciato a scrivere canzoni. Chitarra, mandolino, banjodulcimer, pianoforte: ha provato a suonare praticamente tutti gli strumenti che gli sono capitati sottomano. Ha spulciato la collezione di dischi di John Denver e Neil Diamond dei genitori, ha rubato gli album dei Cure del fratello maggiore, ha ascoltato Sonic Youth e Nirvana come tutti gli adolescenti della sua generazione. La sua musica, però, viene da un altro luogo, da un altro tempo. E dal fondo amaro dell’abbandono si leva come un grido che esige di trovare ascolto.


The possibilities are endless


The Gospel Of ProgressÈ un amico di Abilene il primo ad accorgersi del talento di Micah: John-Mark Lapham, tastierista degli anglo-texani Earlies. I bozzetti registrati da quel ragazzo imberbe e occhialuto, intessuti delle esperienze di solitudine e perdizione che ha dovuto affrontare, lo lasciano senza fiato: così, ogni volta che spedisce ad una casa discografica qualcosa della sua band, Lapham allega sempre anche i demo di Hinson. E quando alla radio gli chiedono di scegliere i suoi brani preferiti, ne inserisce anche uno del suo protetto, che non manca di suscitare l’interesse dei talent scout. La famiglia di Micah, nel frattempo, ha deciso di dare un’altra possibilità al figliol prodigo: la sua vita sembra ricominciare con un nuovo orizzonte. Dopo che la mitica Rough Trade l’ha scartato all’ultimo momento, è l’etichetta inglese Sketchbook a decidere di scommettere su di lui. Così, in men che non si dica, Hinson si ritrova in volo per l’Inghilterra per registrare il suo primo disco con il supporto degli Earlies. “Non penso che a molte persone capiti di vedere i propri sogni realizzarsi dopo che hanno completamente distrutto le proprie vite”.

Un tappeto fiabesco di mellotron, un prologo dalle sfumature quasi eelsiane. Poi arriva quella voce, e tutto sembra acquistare all’improvviso un altro significato. È fatta di buio e polvere, di rimpianto e speranza. Viene dalle profondità della terra, dal fantasma in carne e ossa di Johnny Cash: sembra impossibile che possa appartenere a quel ragazzo dall’apparenza esile. In un turbine di archi e voci femminili, “Close Your Eyes” cresce fino a diventare una marcia solenne ed incalzante, sporcata da una coda di distorsioni elettriche: così si annuncia The Gospel Of Progress, frutto del viaggio a Manchester di Hinson in compagnia degli Earlies: nudo ed imponente al tempo stesso, imperniato soltanto sulla forza di una vibrante sincerità.
Diafana come l’ossessione di uno spettro, incompiuta come il frammento di un’antica scultura, la bellezza perseguita Hinson fin dalla copertina del disco, riflessa nell’immagine della sua musa e vedova nera, o piuttosto nella sua trasfigurazione ideale. Un arpeggio alla Leonard Cohen introduce la melodia sognante e cristallina di “Beneath The Rose”, punteggiata di fisarmonica e pianoforte. Poi, con il passo inesorabile delle lancette d’orologio del destino, la chitarra scandisce l’incedere di “Don’t You (part 1 & 2)”, in un ripetersi di versi insistente come una supplica, pronto a levarsi nel crescendo ardente del finale. Quando tratteggia le trame essenziali di “The Possibilities” o “You Lost Sight On Me”, Hinson ha la spoglia intensità dei Black Heart Procession e di Smog; quando si affida al flauto bucolico di “As You Can See” o alle orchestrazioni melodrammatiche di “At Last, Our Promises”, solleva lo sguardo in cerca di un cielo sgombro di nubi.

“Patience” è una carezza, è un grido, è una ferita aperta che sfocia in un climax incontenibile: rabbia e desiderio a sciogliersi nella più lacerante delle invocazioni. Il valzer spettrale di “Stand In My Way” si colora di ottoni, il piano desolato di “The Nothing” rimane sospeso su un tremolio di synth.
Ma è l’epilogo a riservare la composizione più ambiziosa dell’esordio di Hinson: “The Day Texas Sank To The Bottom Of The Sea” lambisce la riva con un arpeggio sussurrato, si lascia condurre al largo dagli archi e alla fine si solleva tra canti di sirene con la placida lentezza di una marea. “I’ve been waiting / So long / Up in these trees / Trying to hang myself with / Thoughts of you / Thoughts of me / I’ve been wishing so long / Why can’t you see?”.
The Gospel Of Progress arriva nei negozi di dischi alla fine del 2004 e la critica, sull’onda della riscoperta folk suscitata dall’effimero fenomeno pre-war, gli attribuisce subito i crismi della rivelazione. I consensi arrivano più dall’Europa che non dalla sua terra natale: “in America c’è qualcuno come me nel cortile di ogni casa”, si schermisce Hinson, “sono solo uno tra milioni”. Ma chi ha la possibilità di partecipare ai suoi concerti, percorsi da un impeto magnetico e catartico, è pronto a giurare che Hinson non è certo uno qualsiasi, nonostante il debito pagato dal suo debutto alla lezione del cantautorato americano degli anni Novanta.

The dreams you left behind


The Baby And The SatelliteUn passo indietro. Prima della caduta, prima della rinascita. Quando il giovane Micah, lasciato lo skate per imbracciare la chitarra, registrava le sue prime canzoni a casa degli amici, tra cui il futuro membro degli Earlies Brandon Carr. The Baby & The Satellite, pubblicato nel 2005 sull’eco di The Gospel Of Progress, è una raccolta dei primi demo di Hinson, risalenti alla primavera del 2000 e riproposti sia nella loro scarna veste originaria (contenuta nella traccia finale del disco), sia in una nuova versione parzialmente riveduta e corretta con l’ausilio del solito John-Mark Lapham. “È un disco che ha molto a che fare con salvezza e perdono”, osserva Hinson. “Trovare la propria strada in questo folle mondo, trovare o offrire speranza nel mezzo di tempi abbandonati”.

La batteria scheletrica e la chitarra spigolosa di “The Dreams You Left Behind” accompagnano una melodia mesta come una lamentazione di Will Oldham, che si fa ancora più amara alla carezza di flauto della reprise conclusiva. “Wasted Away” sgorga da pochi accordi di tastiera, per fluire in una ballata dolente dal finale screziato di synth.
Le canzoni di The Baby And The Satellite hanno un’anima più disadorna e cruda di quelle di The Gospel Of Progress, ma anche un contorno maggiormente sfocato: più che il refolo d’organo di “Or Just Rearrange” o il valzer zoppicante di “For Your Eyes”, a farsi notare sono soprattutto la graffiante veemenza di “The Leading Guy” e gli echi di drum machine in “The Last Charge Of Lt. Paul”, con lo spettro della voce ad aleggiare tra la concretezza delle chitarre e l’emergere di accenni sintetici degni delle prime divagazioni elettro-acustiche di Conor Oberst. L’arpeggio di chitarra e le note di pianoforte di “The Day The Volume Won” chiudono il disco come una profezia della nuova vita di Hinson: “You came to rescue me / Despite all that I have done / You rescued me / From me”.

La collaborazione tra Hinson e Lapham si sublima l’anno successivo nel progetto parallelo The Late Cord, esperimento che aspira a fondere l’ispirazione folk ed elettronica dei due in un classicismo dall’atmosfera soffusa e notturna. L’Ep "Lights From The Wheelhouse", pubblicato dalla 4AD nell’estate del 2006, ammalia sin dall’ouverture, una “Lila Blue” dall’andamento placido e rarefatto quasi alla Sigur Rós, con un alternarsi di impennate e silenzi fortemente emotivo, tra tappeti d’organo, voci sfumate e battiti elettronici discreti. “Nuova musica liturgica”, la definiscono i diretti interessati. La breve partitura di violoncello di “Chains / Strings” e l’armonica eterea di “Hung On The Cemetary Gates” sembrano solo un presagio delle potenzialità compositive del duo, mentre il cupo reiterarsi di note di tastiera di “The Late Cord” ed il pianoforte cullante di “My Most Meaningful Relationships Are With Dead People” rimangono più fedeli ai confini della forma-canzone.
Nel frattempo, Hinson partecipa al tributo alla famiglia Buckley “Dream Brother: The Songs Of Tim And Jeff Buckley” ed all’omaggio ai Beach Boys “Do It Again: A Tribute To Pet Sounds”, vestendo di inattese cadenze country “Yard Of Blond Girls” e mettendo a nudo le ombre di “I’m Waiting For The Day”. Ma l’attesa, ormai, è per il successore vero e proprio di The Gospel Of Progress.


Finding truth in your own ways


The Opera CircuitL’opera seconda di Micah P. Hinson vede la luce alla fine del 2006: più ricca e ambiziosa della precorritrice, più ruvida ed esuberante, impaziente di consacrare il suo autore nell’empireo dei songwriter della sua generazione.
Se The Gospel Of Progress era apparso come una rivelazione, The Opera Circuit punta al respiro del classico. Hinson lo scrive bloccato in un letto, reduce da un intervento chirurgico alla schiena che lo costringe a guardare di nuovo in faccia quegli antidolorifici che già l’avevano piegato alla dipendenza in passato. “È stato come dover dividere il letto con una vecchia e maligna amante”, confessa.
Così, la sua casa di Abilene diventa il punto d’incontro per una multiforme congrega di compagni d’avventura pronti a dare corpo alle sue nuove composizioni, dal talentuoso cantautore statunitense Eric Bachmann fino all’inglese Henry Da Massa, impegnato all’armonica anche nei Late Cord e nel precedente album di Hinson.

Banjo, fisarmonica, ottoni, archi: la banda circense di Hinson sa incidere nell’anima anche quando decide di inscenare una malinconica festa nel suo teatro folk. Come in un incubo di Emir Kusturica, ecco allora il texano scavare una fossa al chiaro di luna al ritmo della marcia zingaresca di “Diggin’ A Grave”, per poi lanciarsi nel valzer increspato di onde di “You’re Only Lonely”, che esplode nella tempesta finale di un fragoroso crescendo alla Bright Eyes.
Sull’aria da carillon di “Jackeyed”, The Opera Circuit trova il suo afflato melodico più intenso in un contrappunto di fiati presi in prestito da Van Morrison. E sugli archi ariosi di “It’s Been So Long” la voce di Hinson si fa così lacerante da costringere alla definitiva immedesimazione con le sue pene d’amore, lasciandosi perdonare anche qualche occasionale pecca di ingenuità.

The Opera Circuit ha lo slancio di Conor Oberst, ma con un più acuto senso dell’equilibrio; l’austerità di Will Oldham, ma con uno sguardo che non si rassegna alla disperazione; il tormento di Bill Callahan, ma con una meno cupa cognizione del dolore. Hinson fluttua con l’aria assorta di Leonard Cohen sulle partiture cameristiche di “Little Boy’s Dream”, veste di romanticismo Devendra Banhart per farlo adagiare sul banjo di “She Don’t Own Me”, ruba a Mark Kozelek i silenzi di “Drift Off To Sleep”: “When you sleep what do you see / A million star to wish upon or just me?”. E quando alla fine si affida solo alle note scarne di un pianoforte, non può fare a meno di corromperle di rumore nell’estrema implorazione di “Don’t Leave Me Now”, che rimane sospesa come un racconto incompiuto, o una promessa segreta: quella di continuare a sopportare gli oltraggi dell’iniqua fortuna facendo affidamento soltanto sulla ferita aperta della propria musica.

The Opera Circuit fanno seguito, tra il 2007 e il 2008, due Ep pubblicati per l’etichetta texana Houston Party, A Dream Of Her e The Surrendering. Il primo, composto da appena tre brani, si avvicina alle ambizioni cameristiche dei Late Cord con i fremiti pianistici di “Me And You”, l’intrecciarsi con il canone di Pachelbel di “A Dream Of Her” ed il gospel spoglio di “The Disappearing”. The Surrendering prosegue lungo la medesima direzione, tra lo scampolo di pianoforte della title track e la fisarmonica balcanica di “The Soundtrack Of Our Lives”, anche se con un accento più tradizionalmente cantautorale, come nei quadretti acustici di “Brothers And Sisters” e “Oh, No”.

Just afraid of dyin’ alone


The Red Empire OrchestraDopo il tour di The Opera Circuit, Micah P. Hinson si lascia tutto alle spalle per ritirarsi tra le mura di casa, prostrato ancora una volta dai problemi alla schiena che avevano già segnato la lavorazione del disco precedente. Un esilio forzato durante il quale il songwriter americano finisce per perdere lentamente la fiducia in sé stesso e nei propri mezzi, fino al punto di non sapere più come proseguire la propria carriera.
È una lettera di John Congleton dei Paper Chase a riportarlo alla vita: “quella lettera mi ha strappato dalla routine in cui mi ero ritrovato, quando l’ho ricevuta qualcosa è andato a posto e ho capito che era la chiamata per me”. Così, Hinson si mette al lavoro con nuova energia insieme a Congleton, già produttore di nomi come Antony e Polyphonic Spree.
Nel frattempo, con un gesto degno del vecchio Johnny Cash, alla fine di un concerto a Londra chiede sul palco alla fidanzata Ashley di diventare sua moglie. E a pochi mesi di distanza dal matrimonio, nel luglio del 2008, eccolo ripresentarsi in scena con The Red Empire Orchestra, un disco in cui ogni ferita sembra trascolorare nell’aria dolce e nostalgica di un tramonto d’estate.

Con l'ormai consueta compenetrazione tra vita e arte, l'effigie della giovane sposa compare non solo nel raffinato booklet dell'album, ma persino sulla chitarra di Micah. L’invocazione della musa di “Come Home Quickly, Darlin’” giunge come l’eco di un grammofono dimenticato, per poi levarsi al passo di un valzer su cui l’organo si distende morbido e avvolgente. The Red Empire Orchestra, pubblicato dall'inglese Full Time Hobby, prosegue lungo la strada intrapresa da The Opera Circuit, vestendo di eleganza orchestrale l’ormai classico "violent country" di Hinson, come lui stesso ama definire la propria musica su MySpace.
I ricami degli archi decorano delicatamente il crescendo di “Tell Me It Ain’t So”, conferendole un aspetto intimo e solenne al tempo stesso, mentre la dichiarazione d’amore di “Sunrise Over The Olympus Mons” scivola languida come lo scorrere delle ore nell’abbandono di un abbraccio, frantumandosi in un pulviscolo di screpolature elettriche. Da una nenia gitana che potrebbe incantare Matt Elliott, ecco poi fiorire l’elegia cameristica di “I Keep Havin’ These Dreams”, con la voce notturna di Hinson a mostrarsi in tutta la propria vulnerabilità: “And I keep having these dreams, that you were all I needed”.

The Red Empire Orchestra è un disco che si svela con maggiore lentezza rispetto agli altri capitoli della discografia di Hinson, percorso com’è da un lirismo pieno di commozione, ma meno vibrante che in passato. “The Fire Came Up To My Knees” si adagia sul canone ormai consolidato di The Gospel Of Progress, “You Will Find Me” si lascia prendere la mano dall’enfasi. Meglio le brevi illuminazioni di brani come “When We Embraced”, con il suo banjo lieve e brioso, o “Throw The Stone”, con il violino ad intrecciarsi con gli arpeggi della chitarra.
Hinson sfodera la sua anima da crooner anni Cinquanta indossando le vesti di un romantico Roy Orbison sulle note di “We Won’t Have To Be Lonesome”, danza con i fantasmi nascosti tra le pieghe di “The Wishing Well And The Willow Tree”, fino a lasciarsi cullare dalla drammaticità degli archi della conclusiva “Dyin’ Alone”: “I’m not afraid of the suffering or of the pain / I’m just afraid of dyin’ without findin’ you”. La pace, per il giovane Micah, è tutta qui: nell’incontro con uno sguardo insieme al quale anche affrontare il dolore diventa possibile.

A un anno di distanza da The Red Empire Orchestra, per Hinson giunge l'ora di guardare in faccia le proprie radici: nel settembre del 2009 arriva così All Dressed Up And Smelling Of Strangers, una raccolta di ben sedici cover con cui il songwriter americano accetta la sfida di misurarsi con la musica che ha segnato la sua strada. Ma stavolta la giusta alchimia sembra non riuscire quasi mai a scattare e il disco si rivela inaspettatamente il primo passo falso della discografia di Hinson. Non manca la sincerità, né tantomeno il coraggio di mettersi in gioco: a difettare è piuttosto quella dose di ponderazione capace di riscattare le sorti di un lavoro in cui l'urgenza si confonde troppo spesso con l'improvvisazione.
Dei due volumi in cui si divide l'album, il primo - affidato quasi esclusivamente alla voce e alla chitarra di Hinson - sembra anche il più debole: la colpa è in parte della scelta di una serie di brani obiettivamente troppo ingombranti, in parte della mancanza di personalità delle riletture offerte dal songwriter americano, dalla dylaniana "The Times They Are A-Changin'" a "Suzanne" di Leonard Cohen.

Atmosfere da vecchio juke-box ed una ruvida elettricità fanno invece da scenario al secondo capitolo dell'album, tra una leziosa "Are You Lonesome Tonight?" a una "In The Pines" quasi grunge: il risultato, tuttavia, non cambia troppo e l'accostamento tra melodie evergreen e spartane distorsioni mostra presto la corda.
Eppure, il songwriter americano dimostra di non avere dimenticato l'arte di immedesimarsi nell'opera altrui per trarne qualcosa di nuovo: lo si intuisce di fronte alla cullante dolcezza di arpeggi e organo che accompagna il ritmo scheletrico di "We Almost Had A Baby", firmata dalla giovane cantautrice Emmy The Great; oppure quando la drammaticità della beatlesiana "While My Guitar Gently Weeps" si veste di un gioco di voci filtrate, tintinnii e vibrazioni elettriche degne di un apocrifo degli Sparklehorse.
Alla fine, All Dressed Up And Smelling Of Strangers rimane in sostanza un'occasione persa: a quanto pare, Micah P. Hinson non è ancora pronto a fare i conti con il proprio albero genealogico.


A call to arms


SaboteursE dopo il tempo della riconciliazione con sè stesso e con il proprio retaggio, per Micah P. Hinson giunge il tempo della battaglia. Una chiamata alle armi, come annuncia l'ouverture impressionistica che fa da prologo al quarto album vero e proprio del songwriter texano, The Pioneer Saboteurs. Un appello al cuore di chi è disposto a mettersi in guerra con il mondo: "I pionieri sabotatori hanno il cuore pieno di rabbia. Guardiamo il mondo cambiare e non ci piace quello che vediamo".
A fare da icona, una dark lady dalla pistola spianata, pronta a virare verso territori di noir tarantiniano un immaginario in bianco e nero ormai inconfondibile. A fare da guida, i versi di Walt Whitman sull'epopea della frontiera americana, pronti a infiammare gli animi e a spronare alla lotta. Hinson e i suoi indomiti guastatori alzano lo sguardo per riconquistare la loro missione di uomini: "Il cielo ci guarda e ci chiede che cosa stiamo facendo di noi stessi. Chi vuole prendere in mano le armi?".
Lo spirito del sabotatore non accetta che il grido venga messo a tacere. Lo spirito del pioniere non accetta che le radici si fossilizzino nel passato. Hinson dà voce all'ambizione, si avventura verso il confine: dopo l'inciampo di All Dressed Up And Smelling Of Strangers, alza la posta e sfida lo stereotipo del folksinger con un disco più ardimentoso che mai. Eppure, stavolta sembra che sia l'amore per l'idea a prevalere su quello per il contenuto: e le canzoni di The Pioneer Saboteurs, nonostante la veste imponente e l'ampiezza delle orchestrazioni, finiscono per rimanere un gradino più in basso rispetto allo struggimento pacificato del precedente The Red Empire Orchestra o alla forza evocativa di The Opera Circuit.

C'è un frastagliarsi di ritmi, un impennarsi di elettricità, un inseguirsi di cori dalle suggestioni morriconiane: "2's & 3's" fa da perfetta sintesi delle atmosfere di The Pioneer Saboteurs, coniugando le inquietudini di The Gospel Of Progress con l'accrescimento di respiro dei dischi successivi.
Gli archi hanno un ruolo essenziale nel delineare i contorni dei brani: "The Cross That Stole This Heart Away" fluttua su un lungo preludio sinfonico, per poi sfociare in un'elegia barocca screziata di interferenze, che si conclude sulle note solitarie di una tromba. Hinson va in cerca di architetture più complesse, strizzando l'occhio all'indie-rock sul tono enfatico di "Watchers, Tell Us Of The Night", con la sua batteria marziale e le sue vampate di chitarre, mentre l'epica western di "The Striking Before The Storm" si ammanta di cupa drammaticità: "Seems like a disease / That I couldn't question anyhow". Ma scelte come i sette minuti di distorsioni informi che ingombrano la conclusiva "The Returning" non sembrano avere altro senso se non quello di conquistare al songwriter texano una sorta di (sterile) patente "alternativa": quando alla fine riemerge dal passato il tema di "Dyin' Alone", è difficile scacciare la nostalgia.

Il diario autobiografico di Hinson torna nell'espressa dedica di "The Letter At Twin Wrecks" alla moglie Ashley (accreditata anche come vocalist). Non basta però il paragone con il primo Waits a scongiurare l'eccesso di lirismo che sembra percorrere in più di un episodio il disco.
Le immagini evocate dai versi di The Pioneer Saboteurs emergono meno vivide che in passato, dalla classica trama di fallimenti familiari di "Seven Horses Seen" alla solitudine del predicatore senza più fede di "My God, My God", declinata con un'inattesa vena di leggerezza corale. Serve la schiettezza country-folk di "Take Off That Dress For Me" per ammettere che l'unico vero gesto rivoluzionario è aprirsi totalmente all'amore: "My sweetness, you can come be by my side / Against all hope and sense of human pride". Ancora una volta, la chiave di volta della musica di Micah P. Hinson è tutta in questa travolgente, inesplicabile forza redentrice.


On the way home


Micah P. Hinson And The NothingDopo aver collezionato abbastanza traversie da riempirci un canzoniere intero, Hinson sembra avere messo ormai la parola fine alle sue disavventure: le ferite del cuore curate da un amore appassionato, le ambizioni artistiche assecondate da una musa sempre più prolifica. Ma basta un incidente stradale per rimettere tutto in discussione.
Nell’estate del 2011, il van del songwriter americano finisce ribaltato lungo il ciglio della strada per Barcellona: “ero intrappolato come un animale, temendo per la mia vita ogni secondo che passava”, ricorda. Poi i soccorsi, l’ospedale e una terribile scoperta: le braccia non si muovono, restano inerti come se fossero senza vita.
È così che Hinson si trova faccia a faccia con il nulla: lunghi mesi senza sapere se potrà tornare ad avere una vita normale, se potrà ancora prendere in mano una chitarra, se potrà portare a termine le registrazioni lasciate a metà prima dell’incidente. La strada lenta e faticosa del recupero diventa la strada per una sofferta riconquista di sé.
Anche quando si ritrova scaricato dalla Full Time Hobby, Hinson non si dà per vinto. Pubblica con una rivista musicale spagnola una raccolta di outtake e versioni alternative (The Junior Arts Collective), realizza con i parenti un Ep di canzoni natalizie (Wishing For A Christmas Miracle With The Micah P. Hinson Family). E, appena le condizioni fisiche glielo consentono, torna in studio a Santander, di nuovo in Spagna, per realizzare in un paio di giorni un nuovo disco, stavolta per l’etichetta francese Talitres.

Il titolo, The Nothing, riecheggia quello di una delle sue prime canzoni. Ma è impossibile non leggerci il segno della lotta affrontata per strappare il proprio volto dalla morsa del nulla. La scelta di registrare tutto in presa diretta, poi, restituisce alla musica del trentatreenne texano quella schiettezza che mancava al precedente The Pioneer Saboteurs, facendone uno dei suoi lavori più asciutti e diretti di sempre. L’album del suo ritorno a casa.
Non è un caso, allora, che il brano scelto per fare da anteprima al disco si intitoli proprio “On The Way Home (To Abilene)”: è l’emblema di un disco in cui Hinson sembra pronto a riconciliarsi fino in fondo con le proprie radici. “Da Abilene ho ricevuto il senso della bellezza e della lotta, la forza d’animo e le droghe”, racconta Hinson con un sorriso amaro. Ma l’angolo del Texas dove è cresciuto non è più solo un luogo da cui fuggire: ora ha il calore di un abbraccio che aspetta alla fine del cammino.
Ecco allora le memorie familiari di casa Hinson vestirsi di steel guitar per saltare a bordo della locomotiva di Johnny Cash in “The Life, Living, Death And Dying Of One Certain And Peculiar L.J. Nichols”. Gli accenti country, del resto, sono una costante che percorre un po’ tutto il disco, dal banjo svelto di “There’s Only One Name” al contrabbasso da orchestrina di campagna di “Love, Wait For Me”. E “The Same Old Shit” invita M. Ward e Conor Oberst a cavalcare fianco a fianco, caracollando verso la linea dell’orizzonte. Ancora una volta, il segno tangibile di una voce che non ha più paura di dichiarare l’appartenenza alla propria terra.

Meglio non lasciarsi trarre in inganno, insomma, dallo sferragliare punk un po’ sgangherato dell’iniziale “How Are You Just A Dream?”: la stoffa di “The Nothing” è tutt’altra, e il brano d’apertura dell’album suona più che altro come lo sfogo di un impeto trattenuto troppo a lungo.
Un senso palpitante del destino è piuttosto la vera costante delle canzoni di Hinson, ora con i toni accorati della dichiarazione d’amore di “There's Only One Name”, ora con quelli minacciosi del crescendo da chain gang della traccia fantasma “The Crosshairs”. Sacro e profano diventano un tutt’uno sul folk-gospel di “God Is Good”, mentre Micah si ritrova tra le mani il “buon libro” dei suoi padri: “The rivers they keep on moving/ And the homeless they keep on looking/ And my good book says that God is good”. Ha ragione la sua anima texana: il vuoto lasciato dalla donna che ti ha rubato il cuore è lo stesso vuoto lasciato dalla mancanza di Dio. Il bisogno di qualcosa che duri per sempre.


The final songs Ill sing for you


Presents The Holy StrangersÈ crudo e appassionato, il Libro di Micah. Un apocrifo texano nella grande Bibbia dell’America. Ha la voce di un vecchio profeta, o forse di un vagabondo in cerca della strada di casa. A Micah P. Hinson sono serviti due anni per scriverlo. Niente più figure femminili in bianco e nero, niente più intestazioni collettive: in copertina stavolta c’è solo il suo ritratto, con quell’inconfondibile aria da Woody Allen démodé. “Una moderna opera folk”, la definisce. L’opera che inseguiva da molto tempo.

The Holy Strangers, che nel 2017 segna il ritorno di Hinson tra le fila della Full Time Hobby, non è solo una raccolta di canzoni. È la colonna sonora di un vero e proprio romanzo, che accompagna in tiratura limitata le prime copie del disco. E, come in ogni colonna sonora che si rispetti, i brani strumentali si dividono il campo più o meno equamente con quelli cantati, offrendo alla musica di Hinson un respiro più evocativo che mai. La strumentazione è rigorosamente analogica, l’approccio intimamente personale. Meno appariscente che in passato, forse, ma proprio per questo capace di immergersi più a fondo in un percorso dagli intenti così ambiziosi.

 

Comincia con un prologo sinuoso e carico di attesa, The Holy Strangers. Echi di chitarra a galleggiare sulla coltre soffusa di “The Temptation”, il chiarore di un’alba che si fa lentamente strada. Poi, “The Great Void” introduce il racconto su uno di quei classici carillon agrodolci fatti apposta per cullare il baritono scavato di Hinson: il pianto di due bambini che vengono al mondo, l’affacciarsi di due esistenze destinate a rimanere intrecciate. Il loro primo incontro, il loro primo sospiro d’amore prende il passo da ruspante serenata country di “Lover’s Lane”, omaggio sfacciato al romanticismo dell’Uomo in Nero.

“The Years Tire On”, annuncia il primo intermezzo strumentale del disco, conferendo al trascorrere del tempo un senso incombente di fatalità, sottolineato dai risvolti cupi del violoncello. L’attesa è lunga, ma alla fine ecco i figli: Hinson imbraccia la chitarra e intona una ninnananna sbilenca per piccoli alieni (“Oh, Spaceman”), in cui fanno capolino anche i vagiti del suo primogenito Wiley T.

 

Ma quella di The Holy Strangers, casomai ci fossero dubbi, non è la storia di un idillio familiare. L’ombra della guerra, sulle note polverose di una spinetta, si proietta minacciosa sulla title track, strappando il marito dalle mura di casa per abbandonarlo alla violenza del fronte. Nulla sarà più come prima. “Il marito trova una Bibbia, la apre e legge parole che riempiono il suo animo di ira e sdegno”, spiega Hinson. Così, nel lungo spoken word di “Micah Book One”, lo troviamo alle prese con la lettura del Vecchio Testamento (il libro del profeta Michea, ovviamente…), mentre declama visioni di peccato e castigo su una base ipnotica, con il timbro implacabile di qualche personaggio di Flannery O’Connor.

Il secondo atto della storia si apre su una nota ostinata di piano, con gli archi di Andrea Ruggiero e Ambra Chiara Michelangeli a conferire un’aura cameristica a “The War”. “All is lost/ The words we hold onto/ The things that defeat us”, mormora Hinson in duetto con la moglie Ashley in “The Darling I Fear”, scarna e dolente come una litania dei Black Heart Procession. Il sangue chiama altro sangue, le mani del reduce si macchiano di un crimine efferato. Si sente la voce di un predicatore, mellotron e cori assumono un tono insolitamente eelsiano per accompagnare “The Awakening”. Ma alla moglie basta uno sguardo per comprendere: “When you fell out of the forest with the blood on your hands/ I felt alone, I am alone”.

 

Lo scenario è pronto per il compiersi del dramma. Resta solo il tempo di un ultimo addio tra le tastiere di “The Last Song”, prima che le fiamme divorino ogni cosa. Dalle ceneri di “The Memorial Day Massacre” riemerge solo una figura: la moglie, la madre, l’unica sopravvissuta della famiglia, disperata Medea americana. Non le basta saltare su un treno per sfuggire alla maledizione della colpa. Hinson prende in prestito un valzer dalla Carter Family, con uno di quei furti folk tanto cari al vate Dylan (che per “Tempest” ha attinto non a caso alla stessa fonte); e l’eco di uno sparo resta sospeso a mezz’aria in “The Lady From Abilene”: “She took the shiny sixer/ She’d cleaned it again and again/ Put the gun to her temple and now she too was dead”.

Non è questa, però, l’ultima parola. Come il coro di una tragedia, l’epilogo di “Come By Here” trasforma l’arcinoto spiritual “Kumbaya” in una rarefatta preghiera funebre, con la melodia a dipanarsi al rallentatore su uno sfondo sgranato. “Someone’s screaming, Lord, come by here”. Nella lotta, nella sofferenza, nella morte è il grido che il grande mistero si faccia presente. Ogni fiume corre verso il mare, recita la citazione dell’Ecclesiaste posta da Hinson a chiusura dell’album, eppure il mare non è mai pieno: è quell’incompiutezza a renderci davvero uomini, santi stranieri accomunati dallo stesso destino, non più estranei gli uni per gli altri.


Knowing all the things I have seen

143734648-10154917078782465-2466034934188343296-nPiove sangue, dal cielo nero di Micah. A strappare il rullino virato seppia aveva già provveduto The Holy Strangers, ma con When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You il taglio è irreversibile: è la stessa possibilità figurativa ad affogare in uno spettrale suprematismo bicromatico, pittato sull'insegna scrostata di un saloon. Farraginoso ma lapidario come l'autore, anche il titolo sembra rubato da qualche filmaccio western (possibilmente uno il cui duello finale si svolge nella piana di Giosafat), ma il punto è un altro: per una volta il protagonista relega in secondo piano la sua orchestra immaginaria e sceglie di parlare in prima persona, col massimo della chiarezza concessa a un profeta menomato e dislessico. Forse perché è davvero rimasto solo, con se stesso, le sue ferite rosse e la sua notte nera. Forse perché non c'è più niente, oltre quella notte, e quando è tutto buio non ha senso nascondersi.
Eppure solo non è, il giovane-vecchio Micah, anzi non è mai stato in così buona compagnia: ad affiancarlo c'è infatti una folta schiera di amici fidati, selezionati tra quelli che "had shown him a new way to think, a new way to play, a new way to master life and death". Quanto al mondo là fuori, traballa ma è ancora al suo posto: è lui, semmai, che sta cadendo a pezzi.
Insomma, che succede? Succede che è arrivata la resa dei conti, quella definitiva, e il nostro eroe non intende tirarsi indietro. E' dai primi vagiti della carriera che il texano dagli occhi di fuoco sviscera le proprie cadute e risalite, ma adesso è giunto il suo personalissimo Giorno del Giudizio: una fine da cui possa germogliare un nuovo inizio, seguendo le maree della sua ruvida, tormentata spiritualità. Altro che buio, dunque: mai prima d'ora aveva progettato un'opera così luminosa, proprio perché la luce rimane una promessa, e come tale brilla del lampo sovrannaturale delle visioni.

Mette in atto i suoi propositi con una meticolosità ritualizzata, di cui è capace solo una persona allo sbando: sette canzoni scritte in un paio di settimane, registrate in un solo giorno "da qualche parte in Texas", rigorosamente con equipaggiamento analogico e riverberi naturali. Tornare all'origine per rinascere: i cliché, nelle mani giuste, diventano bombe a mano.
Si diceva degli accompagnatori: il capo non vuole dirci chi sono, quasi per proteggere dei complici a cui ha garantito di addossarsi tutta la colpa. Mani senza nome, in una banda che però un nome ce l'ha, ancora una volta: "The Musicians of the Apocalypse", come gli strumentisti di pietra che, nella cattedrale di Santiago de Compostela, attorniano San Giacomo. Santo non è mai stato, il peccatore Micah, ma il calvario che racconta è reale come un brutto incidente, e la sua armata l'Apocalisse la scatena per davvero: non vomitando caos, che è già trionfante e va semmai arginato, ma inducendo un'ipnosi che possa rimettere in riga il mondo, un cadavere gettato sopra la tastiera di un organo a canne, generando bordoni così profondi da fermare il Tempo. Non c'è spazio per le prediche, si passa direttamente ai fatti.

E' pertanto una stasi cosmica quella che avvolge "I Am Looking For The Truth, Not A Knife In The Back", ma che sta così dentro alla realtà e alla vita da compenetrarle e ricomprenderle nel suo fluire. La preparazione è laboriosa: un minuto intero di scricchiolii e rumori d'ambiente per dar spessore alla messa in scena, con l'orchestra che si attarda a provare fino al fischio d'inizio. Il mormorare sfinito di un condannato a morte che si avvia al patibolo, in bocca versi che non le mandano a dire ("That wishing well won’t stop the spell of sorrow/Knowing all the things I have seen") e la via hinsoniana allo slowcore è servita, col passo inesorabile di una carovana di disperati tra la polvere: provateci a fermarlo con una pugnalata alla schiena, un uomo che sta cercando la Verità.
Di colpo la marcia s'interrompe, le nubi si addensano e la voce si satura di violenti presagi d'Amore e Morte, dylaniata da un Hammond mercuriale: è "The Sleep Of The Damned", inquieto e senza sogni come un presente soffocante che minaccia di durare per sempre.

Torna l'acustica a prosciugare il Diluvio e ciò che rimane è la filastrocca in controfase di "My Blood Will Call Out to You From the Ground", attraversata da una speranza tutt'altro che rassicurante nel suo calcato infantilismo ("There i go to my wishing well/Looking for true love/Watching misery make my bed"). Dopo la buonanotte, il sonno (della ragione) eterno: i nove, impressionanti minuti strumentali di "The Skulls Of Christ” sono quanto di più insolito e spaventoso Micah abbia mai composto. Invischiata di disturbati sample televisivi (predicatori, politicanti, giornalisti: il caos dei nostri tempi, se non di tutti i tempi), comincia come "When The Levee Breaks" e finisce come "I Heard You Looking", in mezzo sgraziate lacerazioni di leva, muro di distorsioni siderali, grumo di silenzio, incubo di rumore e un coro angelico che ingoia l'universo intero nella sua maestosa risacca. Le parole possiamo solo immaginarle, ma al cospetto della Parola non sono più nemmeno pensabili.

Raccolta breve di episodi lunghi, rarefatta eppure densissima, è il suo disco più cupo e meno tragico: una prerogativa delle cose destinate a rimanere. Il folksinger con la chitarra ammazza-fascisti è definitivamente seppellito, e qualsiasi cosa seguirà questo asteroide farà bene a lui e male a noi. Come una freccia che, scoccata con la giusta mira, può solo uccidere.

Dopo tanta oscurità e contemporaneamente tanto splendore, sarebbe stato lecito attendersi la prosecuzione di un percorso tracciato e invece I Lie To You - registrato in Italia grazie al produttore e musicista Alessandro Stefana e grazie all'invito di Vinicio Capossela allo “Sponz Fest” - cambia registro e abbandona i tenebrosi scenari apocalittici. Perché gli undici brani della nuova opera di Micah sembrano più vicini a una favola, seppur macabra, che a un’imminente fine, una serie di brevi racconti folk intimi e solitari figli delle campagne dell'Irpinia (luogo di registrazione) e dei ricordi di una difficile infanzia americana.

“Ignore The Days” e il suo video tracciano subito una stagione diversa, con una melodia semplice e il racconto di una favola per adulti ancora bambini. Micah si conferma poeta maledetto nei piccoli momenti orchestrali (“Carelessly”) e nelle ballate folk tragiche (“What Does It Matter Now?”), dipingendo piccoli acquerelli per voce e chitarra, tutti compresi tra i due e i quattro minuti.

Probabilmente “I Lie To You” è un passo indietro rispetto alla precedente grandezza, ma seppur in un formato ridotto, la musica e i testi autobiografici e autentici sanno come centrare l'ascoltatore al petto e l'impressione è che Micah non faccia neppure tanta fatica a farlo. Da “People” a “Find Your Way Out” non si rimpiangono i grandi musicisti folk americani, omaggiati direttamente con la cover “Please Daddy, Don’t Get Drunk This Christmas”, celebre brano del folk-singer texano John Denver.

Contributi di Ossydiana Speri ("When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You") e di Valerio D'Onofrio ("I Lie To You")

Micah P. Hinson

Discografia

Micah P. Hinson And The Gospel Of Progress(Sketchbook, 2004)

7,5

The Baby And The Satellite(Sketchbook, 2005)

6,5

Micah P. Hinson And The Opera Circuit(Sketchbook, 2006)

7,5

A Dream Of Her(Ep, Houston Party, 2007)

7

The Surrendering(Ep, Houston Party, 2008)

6,5

Micah P. Hinson And The Red Empire Orchestra(Full Time Hobby, 2008)

7,5

All Dressed Up And Smelling Of Strangers(Full Time Hobby, 2009)

6

Micah P. Hinson And The Pioneer Saboteurs(Full Time Hobby, 2010)

6,5

Micah P. Hinson And The Junior Arts Collective(Sindedin, 2012)

6

Wishing For A Christmas Miracle With The Micah P. Hinson Family(Ep, Yellow Bird, 2013)

6

Micah P. Hinson And The Nothing(Talitres, 2014)

7

Micah P. Hinson Presents The Holy Strangers(Full Time Hobby, 2017)

7,5

When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You(Full Time Hobby, 2018)

7,5

I Lie To You(Ponderosa, 2022)

7

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Beneath The Rose
(da The Gospel Of Progress , 2004)
Stand In My Way
(live, da The Gospel Of Progress , 2004)
Yard Of Blonde Girls (Jeff Buckley)
(da Dream Brother: The Songs Of Tim And Jeff Buckley , 2005)
Diggin' A Grave
(live, da The Opera Circuit , 2006)
Tell Me It Ain't So
(live, da The Red Empire Orchestra , 2008)
Are You Lonesome Tonight?
(live, da All Dressed Up And Smelling Of Strangers, 2009)
Take Off That Dress For Me
(live, da The Pioneer Saboteurs, 2010)
Oh, Spaceman
(live, da The Holy Strangers, 2017)

 

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