Antony And The Johnsons

Antony And The Johnsons

L'estasi blu dell'angelo

Da androgina drag queen dell'underground newyorkese a stella del firmamento neoromantico di inizio millennio: Antony Hegarty ha risvegliato il potere sopito del songwriting emozionale, denso di malinconia e aspirazione alla luce, emergendo con una sensibilità insieme antica e universale. Un nuovo livello inesplorato dell'arty-pop contemporaneo

di Davide Ariasso

La cosa più squisita che ascolterete in tutta la vostra vita.
Scoprire Antony è come ascoltare Elvis per la prima volta

(Laurie Anderson)

In quella voce puoi sentire tutte le emozioni del pianeta
(Diamanda Galas)

Diventerà una leggenda, come Nina Simone
Sierra Casady (Cocorosie)

Da culto underground a stella di primo piano della scena alternativa, nel giro di un solo disco. Un album, I Am A Bird Now , che, come pochi altri nel panorama internazionale della canzone d'autore degli ultimi anni, ha provocato una massiccia e quasi universale unanimità di elogi. In sottofondo echeggiano gli attestati d'identificazione da parte dei fan con il nuovo romanticismo di cui Antony è alfiere. Basta leggere la maggioranza delle recensioni e degli articoli a lui dedicati, o spulciare i forum tematici online, per avere la conferma di un Antony lucido prestigiatore dell'anima, già a suo agio fra i più potenti sciamani del cuore pop moderno. La sua magia? Aver risvegliato il potere sopito del songwriting emozionale, denso di malinconia e aspirazione alla luce, dei migliori pifferai new wave degli anni 80, emergendo con una sensibilità nuova e insieme più antica e universale degli antenati del decennio che, secondo la rivista "The Word" (settembre 2006), è stato fra i più rivoluzionari nella storia del pop.

1982. Il bambino prende il disco fra le mani, e come in uno specchio l'icona di Boy George lo guarda dalla copertina di "Kissing To Be Clever", debutto dei Culture Club. Antony pensa: "Bene, ecco cosa fanno quelli come me: diventano cantanti". Nato a Chichester nel 1971, nella contea inglese del West Sussex, Antony Hegarty si trasferisce insieme alla famiglia prima ad Amsterdam, poi all'età di dieci anni a San José, in California. Qui, frequentando una scuola cattolica, questo bambino dalla spiccata sensibilità femminile sperimenta fin da subito il giudizio verso la sua "diversità". E' con la scoperta di Boy George che il suo senso di non appartenenza diventa punto di forza. Per il suo undicesimo compleanno Antony riceve una tastiera Casio, su cui inizia a cimentarsi con le canzoni di Kate Bush, Soft Cell e Yazoo, mentre a scuola canta nel coro e in un gruppo ispirato al dark-punk di Christian Death e Sex Gang Children.
La sua attrazione verso il palcoscenico si perfeziona e definisce alcuni tratti importanti della sua direzione futura alla School for the Performing Arts di San José, tanto che a diciotto anni, all'Università della California a Santa Cruz, Antony mette già in scena le prime performance ispirate a John Waters e all'icona-guru Divine.
Sarà però la visione di "Mondo New York", il documentario cult dedicato alla scena drag e cabaret newyorchese degli anni 80, a spingerlo a fare il grande passo di trasferirsi nella Grande Mela, dove avrebbe trovato l'ambiente più consono alla sua sensibilità artistica e alla sua ricerca espressiva incentrata sul tema dell'identità di genere: "Amavo quegli artisti... Joey Arias, Dean Johnson, Phoebe Legere. Erano così eleganti e punk. Mi ispirò soprattutto Joey che cantava "A Hard Day's Night" vestito da Billie Holiday". Dichiarazioni del genere, da puro fan e ammiratore di altri artisti, sono un tratto costante della retorica del cantante fino ad oggi, e non solo nelle sue interviste, ma nel cuore stesso delle sue canzoni o esibizioni dal vivo: la distanza fra opera artistica, persona e personaggio tende ad annullarsi e vengono veicolati valori intimi come la gratitudine, la speranza e la sincerità, qualcosa di piuttosto marginale, anche se non del tutto estraneo, in quell'area fra avanguardia e pop in cui si colloca Antony.

1990. Attraverso lo specchio. Antony entra finalmente in un mondo che può rendere carne il suo sogno: l'invenzione della propria identità, diventare altro per tracciare un percorso verso se stessi, immergersi nella luce di chanteuse che investiva Isabella Rossellini in "Velluto Blu", impersonare la drag queen calva della copertina del singolo "Torch" dei Soft Cell. La sua ricerca artistica, di identità e di appartenenza trova la dimensione perfetta nella scena punk e drag dell'East Village, primo palcoscenico newyorchese per Antony, che in quei giorni si poteva incontrare al Pyramid Club in guêpière, testa rasata e sigaretta fra le dita. Qui inizia a esibirsi regolarmente con il collettivo di cabaret d'avanguardia Blacklips: le loro performance afterhours erano un provocatorio misto di grandguignol ed estetica transgender, attitudine punk, musical e pezzi teatrali messi in piedi nel giro di una settimana. A turno con gli altri componenti del gruppo, Antony inventa personaggi, scrive scenari, canzoni, arrangiamenti ed entra in scena alle due di notte come Fiona Blue, drag queen e archetipo androgino ispirato da Klaus Nomi, Leigh Bowery e dal violento approccio comunicativo di Diamanda Galas, mentre tenta di coinvolgere il pubblico ubriaco del nightclub in una sessione estrema di teatro grottesco e catarsi emozionale. A testimoniare questa fase del personaggio, l'apparizione nel documetario "Wigstock: The Movie", sull'annuale festival drag della metropoli.
Nello stesso periodo Antony fa in tempo a laurearsi in "Teatro Sperimentale", mentre è testimone dell'apocalisse che segna la comunità omosessuale a New York, dove la tragedia dell'Aids ha ormai sconvolto non solo le esistenze delle persone ma anche il precedente, trasgressivo clima culturale degli anni 80.

1995. Antony decide di dedicarsi completamente alla sua passione principale, la musica. Dai Blacklips appena sciolti recluta il batterista Todd Cohen, che insieme a Joan Wasser e Maxim Moston ai violini, Jeff Langston al basso elettrico, Jason Hart al piano e Michele Schifferle ospite al violoncello, vanno a formare la piccola orchestra artefice dei raffinati arrangiamenti delle sue composizioni. Nascono così Antony and the Johnsons, nome ispirato a Marsha P. Johnson, il travestito newyorchese che nel 1970 fondò la casa di accoglienza per travestiti STAR, e la cui tragica fine nel fiume Hudson sarà evocata in "River Of Sorrow".
Il gruppo ottiene velocemente un seguito fedele grazie alle performance in club alternativi quali il Joe's pub, The Kitchen e la Knitting Factory. Nel 1996, oltre a produrre il demo "Blue Angel" grazie a un finanziamento della NYFA, compare sulla compilation dedicata alle drag queen "God Shave The Queen", con l'instant classic' "Cripple And The Starfish". Questa torch-song (nella versione che apparirà sull'album di debutto), distillata da uno degli show del periodo Blacklips, traccia le linee essenziali della poetica antoniana, con una nettezza di forme e una potenza d'impatto che l'hanno resa carta di presentazione dei Johnsons per tutta la prima fase della loro carriera. L'intro desolata affidata al violino, il controcanto classico del piano, la voce di Antony che entra, aliena e lirica, a cantare di una scena di omoerotismo che diventa invocazione masochistica, gli archi e l'arpa che cullano, eterei, i fiati che esaltano le sfumature del dramma fino al crescendo finale, con tanto di batteria e sax mentre la voce si lascia trasportare da una spinta quasi gospel: un trionfo, qualcosa che non si è mai sentito prima, nonostante la formula, a pensarci bene, non sia particolarmente originale o avanguardistica. Oltre alla qualità della scrittura, è il canto a rendere unica la performance e a presentarsi come una sintesi del tutto nuova e romantica di alcune delle voci più dense del Novecento: dal tenore potente di Elvis Presley all'intensità emotiva di Nina Simone, dallo slancio nell'abisso e nel sublime di Tim Buckley alla scarnificazione dolorosa di Diamanda Galas, dalla nudità dell'anima di Otis Redding alla vulnerabilità sotto lente d'ingrandimento di Billie Holiday e Jimmy Scott, passando per lo specchio scuro di Scott Walker, il sentimentalismo decadente di Brian Ferry e l'ariosità fatata di Kate Bush. E' Antony stesso a citare nelle interviste alcune di queste influenze (insieme ad Alison Moyet, Marc Almond e Boy George), e ad affermare che a forza di aggiungere fonti d'ispirazione alla sua ricetta, nel corso degli anni la sua voce personale è emersa con naturalezza dalla "compilation" di tutti questi artisti.
Grazie a un amico comune, "Blue Angel" finisce nelle mani di David Tibet, leader dei Current 93 e a capo della Durtro, specializzata in folk apocalittico e ultimo vessillo della saga industriale dei primi anni 80. Tibet se ne innamora all'istante, e nel 1999 i Johnsons sono reclutati dalla sua etichetta. Segue un tour insieme al gruppo del nuovo patrono, mentre nel 2000 escono per Durtro dapprima uno split-single con un brano dei Current 93 e "Cripple And The Starfish", e in seguito l'album di debutto dei Johnsons.

Nonostante il valore epocale di Antony and the Johnsons, sarà però necessario aspettare la ristampa del 2004 affidata alla Secretly Canadian, con la conseguente ondata promozionale, perché l'audience si allarghi oltre le schiere degli affezionati newyorchesi e dei cultori dell'esoterico circolo di artisti intorno a David Tibet. Partecipano all'album Baby Dee (geniale artista transessuale con un percorso di cantautrice molto vicino ad Antony) all'arpa, Charles Nelson alla chitarra, Francois Gehin al basso, William Basinski (autore di ipnotiche e originali opere elettroniche) al clarinetto, oltre a una serie di ospiti agli archi.
La copertina annuncia il carattere solenne, insieme carnale e trascendente del disco: Antony al centro, come una imponente Afrodite che sorge dal mare, il volto illuminato da un'aureola di santo medievale, con la luce bianca che sfuma nel blu e l'atmosfera sospesa in uno spazio fuori dal tempo. Il magnetismo dell'archetipo dell'androgino è innescato, e l'evocazione delle profondità psichiche intimamente connesse con le emozioni umane parte già da qui. La copertina è quadro e anche performance (l'aureola sembra l'effetto di un cerchio ritagliato su un velo fra l'obiettivo e il personaggio) e si aggancia sia al passato artistico di Antony, sia all'attitudine multimediale del "vicino" mondo di Warhol.
Apre le danze "Twilight", come immaginare il Nick Cave più lirico e drammatico qualche ottava più in alto, come Nina Simone che mette in scena la disfatta e la gloria nella stessa canzone. Antony passa dal lamentoso al titanico, all'invocazione della chiusa dolce e recitativa, toccando tutte le emozioni di un atto shakespeariano, mentre gli strumenti dipingono un paesaggio scuro ma dai colori netti, che segue, esalta e drammatizza le traiettorie del cantante. Il fondale, insieme ricco e composto da sequenze minimali, crea romantici dinamismi pur mantenendo una solida compostezza neoclassica, una caratteristica che rimarrà pressoché invariata per tutto l'album. Alla già citata "Cripple And The Starfish" segue l'impressionante "Hitler In My Heart": un numero Weill/Brecht impazzito, che alterna un inusuale tempo di piano allo sprofondamento in un 4/4 in cui Antony giunge all'apice della sua drammaticità gospel, inscenando un rito catartico che sembra trascendere l'orrore e l'angoscia in una visione panica dell'esistenza, con la sensibilità di chi coglie nei movimenti dell'anima il dolore e la speranza dell'intera umanità.
"Atrocities" incornicia la tristezza di Dio di fronte alla Storia, e si costruisce sul contrasto fra il pianto di un Antony sempre più soul, sostenuto dal violoncello, e l'esplosione marziale al centro del brano, in cui cantante e orchestra sembrano, epicamente, voler riprendere in mano il destino. Quando parte la voce in "River of Sorrow" è quasi impossibile non pensare ancora alla più commossa Nina Simone, mentre il sempre eccellente lavoro degli archi ora rimanda all'eterea dolcezza dei This Mortal Coil. "Rapture", litania lenta, avvolgente, mesta mentre conta le lacrime e le cadute dall'estasi di chi si ama, è affidata primariamente a piano, arpa e flauto, con una coda che risveglia con naturalezza le orchestrazioni di Badalamenti per "Twin Peaks". Delle ultime tre canzoni, si staglia per potenza ed epicità la dedica al feticcio di John Waters, "Divine", una ballata soul carica dell'afflato di un manifesto di alterità, orgoglio, indipendenza e passione infuocata, un atto d'amore per un Divine "Mother Of America" e "Self-determined Guru". L'originalità della scrittura e degli arrangiamenti, l'immediatezza di un "pop da camera", la capacità di trattare una materia romantica e malinconica senza appiattirla sugli stereotipi del "gotico", ma affidandola a sfumature e contrasti che l'arricchiscono di visione e compassione, il lirismo e il pathos di Antony, insieme al suo formidabile controllo del rischioso fattore camp, rendono queso disco un'opera imprescindibile nel panorama internazionale della canzone d'autore del 2000.

I Johnsons continuano a suonare dal vivo nei prediletti club neworchesi, mentre nella vibrante scena artistica della metropoli le voci sul nuovo fenomeno musicale iniziano a circolare: l'attore e regista Steve Buscemi contatta Antony per offrirgli un cameo nel suo film "Animal Factory", ambientato nel mondo carcerario americano. Antony compare in una scena dove canta "Rapture" di fronte a un gruppo di carcerati, e la scena è realmente girata in un carcere con veri prigionieri. Per il cantante si tratta di un'esperienza fondamentale nel delineare la sua visione della performance, un momento in cui entra in gioco la possibilità di mettere a nudo la propria anima, un processo che può alimentare uno scambio vitale fra artista e pubblico. Il 2001 inizia invece con l'Ep, sempre per Durtro, I Fell In Love With A Dead Boy, con tre canzoni che perfezionano e allargano la visione del progetto. La title track è un altro instant classic, uno degli apici del repertorio, sentita e reconditamente ironica "take" sul teenage-drama "nero" reso celebre dalle Shangri-Las negli anni 60: l'intro accorata solo voce e piano presenta la scena drammatica e disperata, la canzone ondeggia poi sui violini melliflui raccontando il desiderio e l'impossibilità di realizzarlo, fino a crescere d'intensità nel ritornello e a culminare nella coda, come un gioiello spectoriano inceppato, con il vibrato lancinante di una Billie Holiday che domanda, rapita, "Are you a boy or a girl?". "Mysteries Of Love" è, finalmente, una cover di Badalamenti/Lynch, modelli ispirativi fin dall'inizio, e fluttua sospesa ancora di più, se possibile, dell'originale interpretata da Julee Cruise. "Soft Black Stars" è invece il sentito tributo a David Tibet, qui reso più melodioso senza alterarne la scintillante cupezza originale. Sembra che, all'epoca della sua uscita, Laurie Anderson e Lou Reed abbiano acquistato in un negozio di dischi questo cd singolo per via della copertina: ancora una volta un quadro-performance fra carnalità e profondità archetipica, con un Antony-dead boy e due esseri mitologici inquietanti a sovrastarne il corpo come in un rituale pagano. Più dell'artwork è però la voce di Antony a sortire un'inaspettata fascinazione sull'ex-protetto della Factory warholiana: Lou Reed, notoriamente riservato se non algido nel manifestare le emozioni, si commuove. E Antony trova così il suo secondo e influente patrono.

Nel dicembre del 2001 Lou Reed, insieme a Robert Wilson, porta in scena alla Brooklyn Academy of Music lo spettacolo "POEtry", dedicato alle novelle e alle poesie di Edgar Allan Poe. Un anno dopo il progetto trova la sua realizzazione discografica in " The Raven ", con la produzione di Hal Willner, mentre il nuovo protetto di Reed compare come backing vocalist e nelle vesti di arcana voce su spettrali sintetizzatori nella rendition del classico "Perfect Day".
Si tratta di un vero e proprio lancio per Antony, che inizia a venire registrato dai critici musicali a livello internazionale come "quella strana voce contro-tenorile che accompagna Lou Reed nelle sue ultime produzioni".
Nel 2003 Antony segue Reed come corista nel lungo tour da cui verrà tratto il disco dal vivo " Animal Serenade " (2004), dove compare la sua versione della ballata velvettiana che più di ogni altra unisce i mondi ispirativi dei due artisti, "Candy Says" (scritta da Reed pensando a Candy Darling).
Ma il 2003 è ancora un anno di uscite per Durtro. A maggio esce lo split Ep, diviso anche questa volta con i Current 93, Live At St.Olave's, registrato nel 2002 in un'antica chiesa londinese. Delle tre canzoni, eseguite da Antony al piano accompagnato solo dal violino di Maxim Moston, spicca il suo omaggio alla poesia di Poe, "The Lake". Il minimalismo dei passaggi del piano pemette ad Antony di esprimersi con variazioni vocali sottili e potenti, mentre il suo vibrato appassionato e dolente, colto nell'atmosfera trascendente della chiesa, conferisce il massimo lirismo al senso ottocentesco della Endless Nostalgia evocato dalle parole di Poe. Le altre due tracce sono la breve e sublime "You Stand Above Me" e una nuova versione di "Cripple And The Starfish". "Virgin Mary" compare invece come retro del singolo dei Current 93 "Calling For Vanished Faces".

La liaison con il cinema si rinnova grazie a Sebastien Liefshitz, che per il suo secondo lungometraggio indipendente, "Wild Side", invita Antony a cantare "I Fell In Love With A Dead Boy" di fronte a un pubblico di transessuali in un caffè parigino. La scena introduce il film, e la poetica di Antony si sposa alla perfezione al suo delicato dramma d'amore, esistenziale e identitario. Ancora maggiore attenzione giunge grazie all'introduzione di "The Lake" nella compilation "Golden Apples Of The Sun", curata nel 2004 dal guru del nuovo folk Devendra Banhart in esclusiva per "Arthur Magazine". La canzone compare a fianco di artisti quali Joanna Newsom, Cocorosie, Currituck Co., Vetiver, Josephine Foster e White Magic: Banhart sembra voler presentare la summa di una scena che sarebbe poi stata definita weird-folk, prewar-folk o freak-folk, ma che in realtà si ispira solo parzialmente a modelli della musica tradizionale americana o inglese: sembra invece trovare la sua ragione unitaria nell'attitudine a trattare la materia folk come elemento catalizzante in una visione progressiva del pop. Antony stesso definisce l'attuale momento della storia della musica popolare, riferendosi in particolare agli artisti a lui vicini, come l'era della "Bellezza Fiorente", in cui "speranza e sincerità sono il nuovo punk".

Banhart è figura-chiave per il compimento del secondo album dei Johnsons, al quale Antony lavora da due anni e che più volte è sul punto di abbandonare. L'inclusione nel disco del giovane folkster, insieme a diversi altri ospiti e amici, sarà proprio il riflesso della modalità di Antony di cercare un territorio comune fra arte e vita, offrendo all'ascoltatore un senso di umanità in cui può collocarsi e identificarsi. Sempre nel 2004 i Johnsons firmano un contratto con l'etichetta Secretly Canadian, che ristampa il debutto, ora disponibile a un'audience più vasta. A novembre esce l'Ep The Lake, con una nuova, più intima e meno intensa versione della title track, la bozza "The Horror Has Gone" e la perla rhythm'n blues "Fistful Of Love" destinata all'album di prossima uscita. Si tratta di un numero soul anni 60 che, dopo una spoken-intro di Lou Reed (presente anche alla chitarra), in pieno stile Shangri Las, da desolata elegia su una dipendenza masochistica si gonfia, con tanto di robusta sessione fiati, in una power-ballad degna di Otis Redding e Aretha Franklin. Il brano, scritto diversi anni addietro, rappresenta una delle più evidenti espressioni della volontà dichiarata da Antony di prendere un sentimento doloroso e trasformarlo dal di dentro in qualcosa di simile al giubilo. Di tutt'altra natura la contemporanea collaborazione per l'album "Want Two" di Rufus Wainwright, dove Antony duetta in "Old Whore's Diet", seguendo un ritmo reggae-calypso e sfoderando tecnicismi lirici dal risultato vagamente comico.

I Am A Bird Now esce nel febbraio del 2005 e se fin da subito suscita clamore critico; in pochi mesi il suo successo di pubblico cresce esponenzialmente. Il disco sancisce la nuova direzione di Antony & The Johnsons verso un'analisi più intima e meno drammatica delle emozioni. E' Antony stesso a dichiarare che con questo disco ha sentito l'esigenza di allontanarsi dalla precedente prossimità a forme di teatro o di cabaret, per concepire una moderna versione della torch-song dal respiro più sottile e diretto. Anche la sua voce acquista nuove sfumature e a momenti sfiora una leggerezza vicina al sussurro. Il disco si apre con il capolavoro "Hope There's Someone", una ballata pianistica sulla paura della morte e della solitudine, un richiamo all'altro, alla vicinanza, alla speranza, che suona come un'accorata preghiera fino a precipitare in una spirale in cui piano, organo e vocalismi s'intrecciano a mimare la discesa in un maelstrom psichico. "My Lady Story" è gradevole e tenera come una caramella bacharachiana, ma pur giocando ancora con storie di dipendenza e con un vibrante archetipo femminile, ha un respiro corto e sembra solo abbozzata. Nonostante la sua brevità, "For Today I Am A Boy", invece, inscena il sogno di un'identità "altra" con una maggiore pregnanza drammatica e lirica, mentre le armonie della voce di Antony moltiplicata si rincorrono, costruendo un'atmosfera estatica di esultanza mista a desiderio, una descrizione minuziosa del sentimento infantile della vita futura. "Man Is The Baby" si riallaccia all'atmosfera desolata e tormentata del Lou Reed di "Berlin", e se la parte vocale suona ridondante, il prezioso lavoro di viola, violoncello e violino la riscatta e la eleva.
In tutto il disco gli arrangiamenti d'archi sono a cura di Julia Kent (violoncello) e Maxim Moston (violino), e sono in gran parte un punto di forza, orchestrati con misura e fluidità a sottolineare i momenti più lirici. In alcuni casi, però, anche a causa della preminenza degli archi, le canzoni sembrano affossarsi in un effetto poetico un po' troppo facile di marca This Mortal Coil. Antony usa il piano con sapienza minimale, pennellando le tracce che la sua voce segue, come i gradini da cui spicca i salti per raggiungere i suoi picchi emozionali. Uno di questi, "You Are My Sister", introduce il primo degli ospiti duettanti, Boy George. Un cerchio si chiude con questa canzone, e il ragazzino che si specchiava nell'icona ora suona il piano e canta a fianco dell'icona stessa, la cui voce, stagionata e rotta, aggiunge una ulteriore dimensione di umanità. Rufus Wainwright è invece il protagonista di "What Can I Do?", un interludio che richiama la brevità e la rassegnazione di "Never Had No One Ever" di smithsiana memoria. Segue "Fistful Of Love", nella stessa versione dell'Ep The Lake, che in questa posizione sull'album si rivela esserne vertice, nonostante la ricerca spirituale e identitaria, tema evidente dell'opera, continui nelle tre tracce successive, senza però aggiungere nulla, anzi sottraendo potere evocativo.
"Spiralling", che ospita il singhiozzo stilizzato di Banhart in apertura, sembra scritta con approssimazione, nonostante bilanci in modo brillante un cantato per la prima volta non a voce piena, ma sussurrato con l'elevazione nelle note lunghe e sospese del ritornello. "Free At Last" è un intermezzo recitato da Julia Yasuda su Codice Morse, mentre la canzone in chiusura "Bird Gehrl", pur nella sua immediatezza, è probabilmente il punto più basso dell'album. Fino ad oggi raramente Antony ha toccato momenti di vacuità, ma questa canzone sembra banalizzare con versi scontati e arrangiamenti melliflui la complessità del viaggio intrapreso all'inizio. Forse, però, per comprenderne l'intento, si può osservare la copertina del disco, la splendida foto di Peter Hujar "Candy Darling on her Deathbed", in cui la modella e superstar warholiana è ritratta con empatia nel letto d'ospedale in cui troverà la morte. "Bird Gehrl" allora diventa un semplice gesto d'amore (non a caso McTeigue e i fratelli Wachowski l'hanno utilizzata in una scena chiave del loro recente film "V per Vendetta" del 2006 per sottolineare un gesto simile). La ricerca, la compassione, il movimento e l'apertura verso l'altro sono i temi portanti, ed è evidente che Antony insegue forme che possano esprimere questa visione con una comunicatività moderna.

Con I Am A Bird Now il gruppo si aggiudica contro ogni pronostico il "Mercury Prize 2005" (i favoriti erano i Kaiser Chiefs), di cui rimane impressa la cerimonia di consegna, con un Antony brillante e autoironico che spiazza e conquista il pubblico britannico grazie alle sue battute di spirito. Il premio lancia i Johnsons nell'orbita mainstream (quinta posizione nella classifica inglese), e il 2005 continua con un lungo tour mondiale: la dimensione dal vivo è l'occasione per scoprire che, nonostante la materia della sua musica sia spesso scura e tormentata, Antony crea una dimensione di performance colloquiale in cui coinvolge il pubblico o improvvisa racconti e siparietti comici. Mentre lo sfibrante tour prosegue con date quotidiane sia in Europa che in America, vengono pubblicati i singoli "Hope There's Someone" e "You Are My Sister": il primo, oltre alla deliziosa "Just One Star", contiene la preziosa "Frankenstein", ancora sul tema della crescita e dell'identità, uno degli apici dell'Antony intimista, che meglio di alcuni numeri sull'album sintetizza il calore soul-gospel, la torch-song e il senso estatico della "visione" delle proprie emozioni. Il secondo, in due diverse edizioni, contiene l'incompiuta e sdolcinata "Forest Of Love", l'esperimento "Poorest Ear", con una coda strumentale da vaudeville astratto che potrebbe indicare sviluppi inaspettati, e la celestiale e troppo breve "Paddy's Gone": come fosse Aaron Neville, moltiplicato in una stanza d'echi, alle prese con una cover di "The Nightingale", ancora dalla colonna sonora di "Twin Peaks".

A seguito del successo di I Am A Bird Now, Antony ha naturalmente esteso il suo raggio di azione, e ormai non si contano le partecipazioni a progetti a sfondo umanitario (dal concerto per il "Teenage Cancer Trust", al duetto con Boy George per l'album "War Child", al brano incluso nella raccolta "Not Alone" per Doctors Without Borders), fino ai duetti (dalle Cocorosie di "Beautiful Boyz" su "Noah's Ark" al brano "I Defy", sull'album "Real Life" di Joan As A Policewoman) e alle collaborazioni con artisti affini (da "Semen Song For James Bidgood" sull'ultimo album dei Matmos a due tracce sul possente "Black Ships Ate The Sky" dei Current 93), mentre l'autunno del 2006 lo vede protagonista di un ritorno alla dimensione della performance, con il progetto "Turning", in esclusiva a Londra e a Roma (il 31 ottobre e 1° novembre all'Auditorium Parco della Musica), in cui Antony and the Johnsons si esibiranno sullo sfondo creato dal regista e video-artista Charles Atlas, con la proiezione e il live-editing di tredici ritratti di bellezze newyorchesi. L'arte di Antony mostra un nuovo livello inesplorato del pop contemporaneo, mescolando l'attitudine arty di stampo warholiano a una magnetica comunicatività che affonda le radici nella torch-song, nelle voci jazz e soul e nella tradizione di alcuni grandi cantautori (fra cui Nick Cave e Leonard Cohen, quest'ultimo omaggiato dal vivo con la cover di "The Guests").
Le sue influenze sono continuamente trascese nella volontà di aprirsi e celebrare il momento presente e l'atto artistico (grazie anche e soprattutto alla qualità e all'uso della sua voce). Questo processo si relaziona direttamente all'idea della creatività umana, ed è forse questa una delle chiavi di lettura del successo di Antony nel toccare profondamente le corde dell'emozione: nella sua voce e nelle sue canzoni, vibra la possibilità della trasformazione di ciò che è oscuro in qualcosa di bello, luminoso e aperto al futuro. Semplicemente, come si chiude "Hitler In My Heart": "From the corpses flowers grow".

Antony assurge rapidamente a guest star più contesa del rock internazionale. Tutti vogliono la sua voce nei loro dischi, da Bjork (su "Volta") agli Hercules & Love Affair (con i quali centra un successo planetario grazie all'hit spacca-discoteche "Blind").

Another World Ep (2008) fa da antipasto a "The Crying Light", terzo album atteso per l'inizio del prossimo anno. Antony torna con il suo stile di raffinato e introspettivo songwriting e subito riallaccia le fila del discorso lasciato in sospeso tre anni fa, con una manciata di tenui ballad in chiaroscuro, quali "Another World", "Crackagen", "Sing For Me". Occhiate furtive dietro il sipario, immagini di un palcoscenico deserto dove solo una fioca luce illumina il solitario cantore e il suo pianoforte. Nessuna sorpresa ma, almeno nel caso della title track, l'incanto è potente e innegabile. La ricerca melodica è pur sempre rivolta alla ricerca di risonanze oniriche, di una sofferta e liberatoria auto-analisi. In questo senso l'ultimo brano "Hope Mountain", in assoluto il più minimale e scarno, raggiunge forse il risultato più eclatante di questa breve raccolta. La sola "Shake That Devil" sperimenta invece una forma diversa, tra l'esoterismo del suo mentore David Tibet e uno scheletrico rock-blues. Esperimento non convincente, ma che potrebbe anche rappresentare un'interessante digressione dagli schemi consueti.
Uscita preparatoria e poco significativa, per un ascolto che ci riconsegna Antony come l'avevamo lasciato, con i suoi pregi, i suoi difetti, la sua classe cristallina.

La ballata pianistica che caratterizzava I Am A Bird Now è anche l'impalcatura dei brani del terzo full-length di Antony, The Crying Light (2008). A cambiare è il modo di riempire gli spazi e, di conseguenza, il risultato. L'album, dedicato al ballerino Kazuo Ohno, parte da un'ottica diversa rispetto ai suoi predecessori: laddove il disco d'esordio parlava della propria vita (idoli, sogni, quotidiano) e il secondo disco entrava a pie' pari nel proprio io, The Crying Light cerca una dimensione ancor più profonda e apre all'uomo in generale e all'universale, guardando al mondo e alla natura, ai principi delle cose.
La maturazione concettuale si abbraccia a quella musicale. I Johnsons del primo disco erano un ensemble che faceva sentire il proprio peso caricando d'enfasi i brani. Quelli del secondo erano diventati una pop rock band essenziale - anche se non certo povera - piegandosi al messaggio. The Crying Light presenta invece un Antony cantautoriale, che recupera spazio alle orchestrazioni e ne toglie alla batteria.
E' un disco di perfetto equilibrio sonoro, che smorza la pervicacia di certe soluzioni melodiche e testuali che pure erano state la sua fortuna. Le melodie d'impatto lasciano il posto a una ricerca ammantata di spiritualità, capace di aprirsi e chiudersi d'improvviso, di navigare fra l'arioso e l'oscuro, triturando e digerendo armonie classiche, canzone anni 50, musica nera.
Stupisce la profondità dell'introversione in cui si inabissa "One Dove", e la classe con cui questo avviene. Stupisce ancor di più il guizzo con cui la melodia vien fuori dalla risacca: una nota di piano, la voce che cambia i giri, i violini che accompagnano il testo. E' il vertice dell'intero disco, incastonato fra altri due gioielli atipici quali la multiforme "Epilepsy Is Dancing", ricca di cambi di umore, e l'immaginifica "Kiss My Name", un inatteso passo di danza. Gli arrangiamenti tanto fervidi quanto misurati ne glorificano la scrittura mordiba e fantasiosa.
Antony si permette il lusso di fare un po' di tutto, mostrando un eclettismo che forse neanche lui stesso sapeva di avere: la title track è un folk pregno del sapore del tempo che scorre, mentre "Dust And Water" è un gospel per sola voce e distorsione di fondo. L'intensità in cui vengono immerse le poche note di "Another World" è la cartolina della dimensione raggiunta da Hegarty. Il clamoroso gospel "Aeon", recitato su crudi arpeggi di chitarra elettrica, palesa l'aura di religiosità in cui è avvolto l'intero disco.
La decina di canzoni di cui si compone questa sorta di concept album sul mondo e i suoi chiaroscuri ("Daylight and the Sun") fa venire in mente una delle parole più abusate da chi parla di musica: artista. Antony and the Johnsons trovano la loro sintesi ideale nel disco più elaborato, più consapevole.

Il successivo Ep Thank You For Your Love (2010) anticipa di poche settimane il quarto album, Swanlights, con cinque pezzi inediti, tra i quali due cover. La title track è l'unico brano incluso anche nel disco con le sue tinte soul, che lasciano affiorare l'anima nera di Antony, in espressivo dialogo con schegge di una ballata inizialmente piana, ma poi sfociante in un gospel a base di fiati e ritmi vibranti, scatenato e gioioso come non mai.
La carica positiva del brano e una certa magniloquenza dell'arrangiamento trovano contrappunto nelle due successive ballate pianistiche, nelle quali Antony dà il meglio a livello interpretativo, prima nelle torsioni vocali che connotano i due minuti di "You Are The Treasure", e poi nella sinuosa melodia di "My Lord My Love". Completano i diciotto minuti dell'Ep le due cover. La prima è "Pressing On", non certo una delle canzoni più conosciute di Bob Dylan (tratta da "Saved", 1980), tradotta in una pacata ballata acustica. Non ha invece bisogno di presentazioni l'altra cover, che vede Antony cimentarsi alla chitarra in "Imagine", unendo un'interpretazione piana e un picking luminoso a moderate folate di frequenze e riverberi a cura da William Basinski.

Swanlights mantiene sostanzialmente fede all'anticipazione, con un'srticolata operazione multimediale (in contemporanea è pubblicato anche un libro che raccoglie scritti, fotografie e altre opere visuali realizzate dall'eclettico artista newyorkese. Dal punto di vista strettamente musicale, il lavoro si presenta più colorato e persino gioioso rispetto al predecessore. L'immaterialità della luce resta al centro dell'ispirazione di Antony, ma stavolta si tratta di una luce caleidoscopica e positiva, che si esplica in soluzioni sonore più complesse, che accompagnano a tratti anche armonie vivaci, dal passo svelto e dalle tinte in qualche occasione prossime al soul.
L'altro elemento costitutivo della poetica di Swanlights è l'acqua, la cui immagine ricorre in più di uno dei titoli e dei testi dei brani: "panta rei" sembra voler intendere Antony quando invoca la purificazione elegiaca di "The Spirit Was Gone" (che indaga i misteri della vita e della morte, quasi riecheggiando "Her Eyes Are Underneath The Ground") o quando cerca rifugio nell'elemento primario nella commossa dedica ai genitori di "The Great White Ocean" o ancora nel visionario salmo di una religione surreale di "Salt Silver Oxygen".
A partire da queste tematiche, Antony tratteggia un affresco umano ed emotivo, come sempre fragile e aggraziato, eppure dotato di una varietà di sfumature che spaziano dall'ampiezza di arrangiamenti orchestrali - curati dall'immancabile Nico Muhly - all'essenzialità di solo piano e voce. Anche le espressive interpretazioni di Antony si conformano di volta in volta ai differenti contesti, spaziando da timbriche soul a ieratiche declamazioni, mostrandosi capaci di inarcarsi in torsioni ardite ma anche di limitarsi a semplici vocalizzi e persino di ritrarsi in secondo piano nel duetto con Björk di "Fletta", nel quale l'artista islandese assume il ruolo di guida.

Benché l'album risulti appunto assai variegato e presenti Antony alle prese con un impianto sonoro particolarmente ricco, denota qualche pecca sotto il profilo della coesione narrativa e, soprattutto, dal punto di vista dell'intensità espressiva e ciò tanto nelle interpretazioni quanto nell'efficacia melodica: un'opera in un certo senso "minore" - per non dire affrettata, se rapportata alle tempistiche abituali - e comunque accessoria rispetto a una proposta artistica che vede Antony protagonista attraverso strumenti diversi da quelli soltanto musicali. Ma pur non trattandosi di un album esaltante, quando si tratta di Antony è sempre un gran bel sentire.

Nel 2012 esce Cut The World, un disco registrato dal vivo con la Danish National Chamber Orchestra. Sebbene il contenuto non sia "innovativo", rimane impossibile non farsi catturare, accarezzare e sbatacchiare l'anima dalle splendide pagine di uno dei personaggi più "potenti" degli ultimi vent'anni. Due i nuovi episodi presenti: la title track posta in apertura, una ballata piuttosto "tipica" dalle potenti tinte noir e accompagnata da un video truculento e decisamente femminista mette in tavola i toni quasi provocatori come fosse il seme che ha dato germoglio all'intera opera. A seguire infatti è il piuttosto chiacchierato "Future Feminism", un discorso di quasi otto minuti nel quale Antony, partendo dall'analisi dell'influenza dei cicli lunari, traccia la sua personale visione del mondo, il suo conflittuale rapporto con la religione in quanto transgender, e le speranze per un futuro sostenibile sul pianeta Terra per tutti gli esseri viventi. È un discorso complesso - e che in diversi potranno trovare anche blasfemo a seconda del proprio credo religioso - ma l'artista riesce, grazie anche a un pizzico d'ironia dispensata ad arte, nell'intento di comunicare le sue personalissime visioni senza scadere in una predica politica. Il dibattito è aperto.
Le restanti tracce, pescate dal patrimonio del passato, formano invece il vero corpo del disco. I brani tratti dall'omonimo album d'esordio sono sempre capaci di smuovere le montagne: maestose la versioni di "Twilight", nel crescendo ritmico eseguito con gran trasporto, e di "Cripple And The Starfish", sulla quale la linea introduttiva di violino viene trionfalmente rinforzata dall'orchestra intera, ma è "Rapture" a ridurre in lacrime anche l'ascoltatore più distratto. C'è posto anche per "I Fell In Love With A Dead Boy", "You Are My Sister" (senza Boy George), quattro selezioni da "The Crying Light" e la title track di Swanlights.
Cut The World è tante cose: è un disco live eseguito con perfezione quasi innaturale e una minima presenza di pubblico, è un disco di rivisitazioni orchestrali arrangiato però con classe sublime e non scontata ed è pure una raccolta di ottime canzoni senza essere un "best of" di grandi successi.

Nel 2013 Antony incontra Franco Battiato, condividendo con lui un concerto all'arena di Verona dal quale viene tratto il doppio album live Del suo veloce volo, con il contributo della Filarmonica Arturo Toscanini diretta da Rob Moose.

Trascorsi tre anni, il bruco Antony diventa farfalla, e Anohni è il suo nome. Messe definitivamente da parte le catene del passato, compreso l’abbandono della denominazione al maschile pretesa a chiare lettere attraverso un comunicato stampa, la cantante e guida suprema degli Antony And The Johnsons torna sulle scene con Hopelessness sotto una nuova veste e dopo ben sei anni dall’ultimo Lp composto interamente da inediti. 
Nuovo progetto, nuovo nome e nuova produzione: Anohni ripone nel cestino dei ricordi tutti gli orpelli orchestrali che da sempre caratterizzano il suo stile, abbracciando in toto (o quasi) soluzioni prettamente elettroniche, affidate per l’occasione a due mastini dell’intrattenimento cerebrale: Ross Birchard, aka Hudson Mohawke, e Daniel Lopatin, meglio noto come Oneohtrix Point Never

E’ un sodalizio inaspettato e spiazzante, che contrappone alla struggente vocalità frattaglie voltaiche disseminate qua e là come scarti metallici gettati con foga nel cassone di un autocarro, spinte con violenza da beat grezzi e smorzati, tanto cazzuti quanto viscerali. Ad aggiungere pepe a questa bizzarra ricetta, sono inoltre le tematiche affrontate dalla stessa Anohni, che si scaglia per tutto il disco contro la stupidità della violenza umana, perpetuata in ogni angolo dai comandanti del mondo, scagliandosi a chiare lettere e con una banalità disarmante contro il più potente di essi: il criticatissimo Obama al quale è dedicata un’intera canzone, intitolata per l'appunto "Obama".



Anohni se la prende con i droni assassini, con gli aguzzini di Guantanamo, pregando con tutta la sua anima, ma allo stesso tempo con un certo pressappochismo, affinché possa esserci protezione dal terrorismo globale, dai reati di pedofilia, insomma dal male che imperversa su questa terra. L’artista è dunque scosso e ripone questo suo tormento in una formula sonora spesso elettronicamente pacchiana, tuttavia ben compatta nella propria virulenta digressione, abbracciando così partiture dubstep, come nel crescendo estatico a matrice Hyperdub di “Crisis”, o nella tastiera imperiosa e stucchevole di “Watch Me”.

L’alternarsi e l’affiancarsi in cabina di regia dei sopracitati Birchard e Lopatin, contribuisce ad arricchire e innalzare su piani superiori i drammi globali di Anohni attraverso un vortice di dissonanze atte a instaurare un climax oscuro, nel quale accanto alla denuncia e alla sconfitta è spesso schierata la volontà umana di vedere la luce in fondo al tunnel sempre e comunque. 
Tuttavia, ciò che non torna nell’effettiva resa di questa nuova metamorfosi musicale, è il contrasto netto e fin troppo asciutto tra l’elettronica di fondo e il tratto immacolato e soave della voce di Anohni, senza contare la pochezza delle parole e il risvolto politico non richiesto che ne consegue. Un connubio che tende a spaesare e che funziona solo quando c’è una comune sinergia tra i due mondi, vedi il battito imperioso di “4 Degrees” con la cantante ben sintonizzata con il passo risoluto formulato dai due produttori. 

E’ dunque questa deriva sonora volutamente tamarra, da circondario post-rave, ad alimentare le maggiori perplessità inerenti la bontà artistica della proposta. Per essere dei veri camaleonti talvolta non basta cambiare pelle, bensì bisogna trovare l’albero giusto sul quale poggiare, e valutare gli effettivi contrasti cromatici per non correre il rischio di essere catturati dal predatore di turno e dal demone del cattivo gusto. 

L'unico modo per ottenere "I Never Stopped Loving You", settima traccia del successivo Paradise Ep (2017), è mandare una mail alla stessa Anohni, condividendo con lei un proprio pensiero intimo sulle speranze per il futuro. L'autrice vuole il coinvolgimento dei propri ascoltatori, vuole scuoterci il più possibile dalla sedia e farci sentire in prima persona l'urgenza dei temi che più le stanno a cuore. E se Hopelessness non faceva prigionieri, con i suoi clangori elettronici e i suoi testi incompromissoriamente crudi e accorati, e l'aggiunta di Paradise segue nel solco.

Sette pezzi in totale quindi, sempre co-prodotti con la strana coppia Lopatin/Mohawke, che ancora una volta attaccano allo stomaco ma che in altri momenti repellono volontariamente le orecchie, mentre la voce di Anohni tuona e rimbomba attraverso droni e suonini in HD. L'apertura di "In My Dreams" sembra quasi l'attacco di un pezzo metal, ma il momento dello scoppio rumoristico non arriva, lasciando semmai alla possente "Paradise" il compito di intavolare la discussione e puntare il dito, soprattutto nel momento in cui decanta:

My Mother's hand
Her gente touch
My Father's hand
Rests on my throat

"Jesus Will Kill You" poi è un altro titolo impossibile da evitare, il pezzo striscia rumoroso e gracchiante e non vuole proprio farsi piacere, come del resto è spiacevole l'immaginario descritto dal testo, che accusa senza rèmore tutti quelli che abusano del proprio potere in nome di Gesù.

Fortuna che, anche a questo giro, ci sono pezzi dove, oltre all'urgenza del messaggio, Anohni allega una musicalità pura e semplice che sa emozionare; "You Are My Enemy" è come un canto sacro, una linea d'organo increspata da un beat appena accennato e la voce che si eleva verso toni gospel, "Ricochet" avanza imponente su una bellissima e ariosa melodia pop con forti controcanti in aria di soul, mentre il finale di "She Doesn't Mourn Her Loss" è quasi bucolico con la sua linea di flauti e chitarra acustica - chiaro contrasto con le drammatiche liriche del testo.

Non c'è proprio modo facile per associarsi al nuovo corso di Anohni. Usare la propria arte per portare avanti un pensiero socio/politico di tale importanza con simile convinzione è sicuramente un'arma a doppio taglio, e chi si è sentito scaldare il cuore nel corso degli anni con i dischi assieme ai Johnsons, può benissimo trovarsi spaesato di fronte a questa svolta elettronica dove l'anima è stata avvolta da nubi di tossico fumo nero - esattamente come la Terra sulla quale viviamo, ci tende a precisare la stessa autrice. Nel proprio intimo, ognuno di noi avrà il modo migliore per passare dall'ideale all'azione come meglio crede, quel che preme ad Anohni è semplicemente di non lasciar posto all'inerzia.

Come un fulmine a ciel sereno, un singolo in chiave soul ha anticipato il ritorno dell'artista. Anohni affida al linguaggio della musica soul il prosieguo di una storia che racconta di oppressione, pregiudizi, identità, perdite, abusi, razzismo, violenza, diritti. My Back Was A Bridge For You To Cross riannoda i fili di un discorso che appartiene alla filologia della musica rock,catturando nei quasi cinque minuti di “It Must Change” il mix di romanticismo e politica di “What’s Goin’ On”, nel graffio di solo novanta secondi di “Go Ahead” il guizzo irriverente dell’Hendrix di “Star-Spangled Banner”, e nell’appassionante racconto dell’ultimo dialogo con Lou Reed, “Sliver Of Ice”, la tenera eppur dolente poesia noir della Grande Mela.
Dopo le apocalittiche incongruenze di Hopelessness, My Back Was A Bridge For You To Cross riapre alla speranza con un rinnovato fervore politico e sociale, entrambi scanditi dal recupero dell’appendice “and The Johnsons” e dalla copertina dedicata all’attivista politica e drag queen Marsha P. Johnsons. La presenza di Jimmy Hogarth (produttore di successo per James Blunt, Duffy e Amy Winehouse) è foriera di una musicalità seducente e non priva di una poetica consapevolezza, c’è la volontà di raggiungere un pubblico più ampio senza rinunciare alle proprie idee, ed è quindi normale che l’artista affidi pensieri e parole ad un groove soul che sembra uscire da un album di Amy Winehouse, o che si confessi senza remore nel delicato gospel-soul di “It's My Fault”.
Nel riannodare le sofferenze passate per poter andare avanti Anohni regala una delle canzoni più potenti dal punto di vista sonoro e lirico, “Scapegoat”, una ballata graffiante cantata con un vibrato quasi insolente ed un crescendo musicale che a tratti evoca “Purple Rain” di Prince.
Il vero miracolo di Anohni è aver reso un tal manifesto ideologico un coinvolgente insieme di canzoni da amare, travolgenti nella loro genuina matrice soul-jazz-blues (“Can’t”), a volte affini ad una preghiera laica dove ognuno può identificarsi e lasciarsi cullare da sonorità cosmic-soul, intessute da un affascinante dialogo tra psichedelia, soul e rock che profuma di classico (“Rest”). Con My Back Was A Bridge For You To Cross Anohni ritorna in scena da protagonista.



Contributi di Mauro Roma ("Another World Ep"), Ciro Frattini ("The Crying Light"), Raffaello Russo ("Thank You For Your Love" e "Swanlights"), Damiano Pandolfini ("Cut The World", Anohni - "Paradise"), Giuliano Delli Paoli (Anohni- "Hopelessness"), Gianfranco Marmoro ("My Back Was A Bridge For You To Cross")

Antony And The Johnsons

Discografia

Antony and the Johnsons (Durtro, 2000/Secretly Canadian 2004)

9

I Fell In Love With A Dead Boy (Ep, Durtro, 2001/Secretly Canadian, 2006)

8

Live at St. Olave's (Durtro, 2003)

8

The Lake (Ep, Secretly Canadian, 2004)

6,5

I Am A Bird Now (Secretly Canadian, 2005)

8

Hope There's Someone (Ep, Secretly Canadian, 2005)

7

You Are My Sister (Ep, Secretly Canadian, 2005)

7

Another World Ep (Ep, Rough Trade, 2008)

6,5

The Crying Light (Secretly Canadian, 2009)

8

Thank You For Your Love (Secretly Canadian, 2010)

6,5

Swanlights (Secretly Canadian, 2010)6,5
Cut The World (live, Rough Trade, 2012)7,5
Del suo veloce volo (con Franco Battiato, Universal, 2013)7
ANOHNI
Hopelessness(Secretly Canadian, 2016)5,5
Paradise (Ep, Secretly Canadian, 2017)
6.5
My Back Was A Bridge For You To Cross(Secretly Canadian, 2023)8



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