Il "bruco" Antony è diventato farfalla e Anohni è il suo nome. Messe definitivamente da parte le catene del passato, compreso l'abbandono della denominazione al maschile pretesa a chiare lettere attraverso un comunicato stampa, la cantante e guida suprema degli Antony and the Johnsons torna sulle scene con il qui presente "Hopelessness" sotto una nuova veste e dopo ben sei anni dall'ultimo Lp composto interamente da inediti, quel "Swanlights" del lontano 2010 che seguiva lo splendido "The Crying Light" dell'anno prima.
Siamo dinanzi a un progetto del tutto nuovo. Con esso Anohni ripone nel cestino dei ricordi gli orpelli orchestrali del passato, abbracciando in toto (o quasi) soluzioni prettamente elettroniche, affidate per l'occasione a due mastini dell'intrattenimento cerebrale: Ross Birchard, aka Hudson Mohawke, e Daniel Lopatin, meglio noto come Oneohtrix Point Never.
È un sodalizio inaspettato e spiazzante, che contrappone alla struggente vocalità frattaglie voltaiche disseminate qua e là come scarti metallici gettati con foga nel cassone di un autocarro.
Spuntano così beat grezzi e smorzati, tanto cazzuti quanto viscerali. Mentre ad aggiungere pepe alla bizzarra ricetta sono le tematiche affrontate dalla stessa Anohni, che si scaglia per tutto il disco contro la stupidità della violenza umana, perpetuata in ogni angolo dai comandanti del mondo, ponendosi a chiare lettere (spesso con una banalità disarmante) contro il più potente di essi: il criticatissimo Obama ("When you were elected/ The world cried for joy/ We thought we had empowered/ The truth-telling envoy/ Now the news is you are spying/ Executing without trial/ Betraying virtues/ Scarring closed the sky/ Punishing the whistle blowers/ Those who tell the truth/ Do you recognize the yellow/ Staring back at you?/ Obama").
Anohni se la prende anche con i droni assassini, con gli aguzzini di Guantanamo, pregando con tutta la sua anima, invocando la sacrosanta protezione dal terrorismo globale e dai reati di pedofilia, insomma dal male generico che imperversa su questa terra. L'artista è dunque scossa e ripone questo suo tormento in una formula sonora elettronicamente pacchiana, tuttavia ben compatta nella propria virulenta digressione, abbracciando all'occasione partiture dubstep, come nel crescendo estatico a matrice Hyperdub di "Crisis", o nella tastiera imperiosa e stucchevole di "Watch Me".
L'alternarsi e l'affiancarsi in cabina di regia dei sopracitati Birchard e Lopatin contribuisce ad arricchire e innalzare su piani superiori i drammi globali di Anohni attraverso un vortice di dissonanze atte a instaurare un climax oscuro, nel quale accanto alla denuncia e alla sconfitta è spesso schierata l'umana speranza di raggiungere e abbracciare la luce in fondo al tunnel. A tal proposito, si prenda ad esempio la stessa "Obama", con il piano finale a fungere da colomba bianca che fugge via, lontano dal buio e dalla cattiveria del mondo espressi inizialmente mediante un'atmosfera catacombale e un'andatura oltremodo minacciosa.
Ciò che non torna, nell'effettiva resa di questa nuova metamorfosi musicale, è il contrasto netto tra l'elettronica di fondo e il tratto vocale immacolato di Anohni. Ad appensantire la matassa è la pochezza delle parole e il risvolto politico non richiesto che ne consegue. Un connubio che tende a spaesare e che funziona solo quando c'è una comune sinergia tra i due approcci, vedi il battito imperioso di "4 Degrees", con la cantante ben sintonizzata con il passo risoluto formulato dai due produttori.
La deriva sonora volutamente tamarra, da circondario post-rave, alimenta quindi non poche perplessità. Per essere dei veri camaleonti talvolta non basta cambiare pelle. Bisogna trovare anche l'albero giusto sul quale poggiare, e valutare gli effettivi contrasti cromatici per non correre il rischio di essere catturati dal predatore di turno o, più semplicemente, dal demone del cattivo gusto.
05/06/2016