Se la pace fosse solo assenza di lotta, probabilmente non significherebbe nulla per uno come Micah P. Hinson: le vicissitudini che ha attraversato gli hanno fatto scoprire presto che la vita non concede tregue. Ma se la pace è qualcosa che ha a che vedere con la certezza di una strada e di chi la percorre insieme a te, allora il discorso cambia. Il songwriter texano l’ha invocata nella solitudine dei giorni di tormento, l’ha nascosta nelle note di ogni canzone: la sua pace è un approdo che invece di cancellare il desiderio di riprendere il cammino lo rende ancora più struggente. È il distendersi placido e fremente degli archi intorno ad una voce ombrosa. È l’orchestra dell’impero rosso.
Dopo il tour di “And The Opera Circuit”, il ventisettenne songwriter americano si è lasciato tutto alle spalle per ritirarsi tra le mura di casa, prostrato ancora una volta dai problemi alla schiena che avevano già segnato la lavorazione del suo secondo disco. Un esilio forzato durante il quale Hinson ha finito per perdere lentamente la fiducia in sé stesso e nei propri mezzi, fino al punto di non sapere più come proseguire la propria carriera.
È stata una lettera di John Congleton dei Paper Chase a riportarlo alla vita: “quella lettera mi ha strappato dalla routine in cui mi ero ritrovato, quando l’ho ricevuta qualcosa è andato a posto e ho capito che era la chiamata per me”. Così, Hinson si è messo al lavoro con nuova energia insieme a Congleton, già produttore di nomi come Antony e Polyphonic Spree.
Nel frattempo, con un gesto degno del vecchio Johnny Cash, alla fine di un concerto a Londra ha chiesto sul palco alla fidanzata Ashley di diventare sua moglie. E a pochi mesi di distanza dal matrimonio, eccolo ripresentarsi in scena con un disco in cui ogni ferita sembra trascolorare nell’aria dolce e nostalgica di un tramonto d’estate.
L’invocazione della musa di “Come Home Quickly, Darlin’” giunge come l’eco di un grammofono dimenticato, per poi levarsi al passo di un valzer su cui l’organo si distende morbido e avvolgente. “The Red Empire Orchestra” prosegue lungo la strada intrapresa da “The Opera Circuit”, vestendo di eleganza orchestrale l’ormai classico violent country di Hinson, come lui stesso ama definire la propria musica su MySpace.
I ricami degli archi decorano delicatamente il crescendo di “Tell Me It Ain’t So”, conferendole un aspetto intimo e solenne al tempo stesso, mentre la dichiarazione d’amore di “Sunrise Over The Olympus Mons” scivola languida come lo scorrere delle ore nell’abbandono di un abbraccio, frantumandosi in un pulviscolo di screpolature elettriche. Da una nenia gitana che potrebbe incantare Matt Elliott, ecco poi fiorire l’elegia cameristica di “I Keep Havin’ These Dreams”, con la voce notturna di Hinson a mostrarsi in tutta la propria vulnerabilità: “And I keep having these dreams, that you were all I needed”.
Lontano dai toni scarni dell’Ep “The Surrendering”, che l’ha preceduto di qualche mese, “The Red Empire Orchestra” è un disco che si svela con maggiore lentezza rispetto agli altri capitoli della discografia di Hinson, percorso com’è da un lirismo pieno di commozione, ma meno vibrante che in passato. “The Fire Came Up To My Knees” si adagia sul canone ormai consolidato di “The Gospel Of Progress”, “You Will Find Me” si lascia prendere la mano dall’enfasi. Meglio le brevi illuminazioni di brani come “When We Embraced”, con il suo banjo lieve e brioso, o “Throw The Stone”, con il violino ad intrecciarsi con gli arpeggi della chitarra.
Hinson sfodera la sua anima da crooner anni Cinquanta indossando le vesti di un romantico Roy Orbison sulle note di “We Won’t Have To Be Lonesome”, danza con i fantasmi nascosti tra le pieghe di “The Wishing Well And The Willow Tree”, fino a lasciarsi cullare dalla drammaticità degli archi della conclusiva “Dyin’ Alone”: “I’m not afraid of the suffering or of the pain / I’m just afraid of dyin’ without findin’ you”. La pace, per il giovane Micah, è tutta qui: nell’incontro con uno sguardo insieme al quale diventa possibile affrontare anche il dolore.
09/07/2008