Basterebbe il riff di "Smoke On The Water" per ricordare i Deep Purple fino ai giorni dell'apocalisse del rock. Ne sono passati, invece, di accordi granitici da quel lontano 1968. Ugole squarciate e progressioni irresistibili hanno attraversato il tempo. John Lord, tastierista, Ritchie Blackmore, chitarrista e Nick Simper, bassista formano i Deep Purple con il batterista Ian Paice e il cantante Rod Evans nel 1968. Nasce, così, la prima line-up del gruppo, chiamata Mark I.
Dopo un paio di album fallimentari, cominciano ad apparire i primi dissapori all'interno della band soprattutto riguardo alla ferma intenzione di Blackmore e Lord di competere sul territorio del rock duro con i Led Zeppelin. Due ex membri degli Episode Six, Ian Gillan (cantante) e Roger Glover (basso) vengono arruolati al posto di Simper e Evans. La Mark II diventerà, presto, una delle formazioni più strabilianti della storia.
Con l'aiuto del giovane produttore Martin Birch, il gruppo inglese pubblica il suo primo, indiscusso capolavoro nel 1970: il granitico, fulmineo "In Rock". Solo nel 1972, tuttavia, i Deep Purple entrano definitivamente nella leggenda. "Machine Head" contiene quello che, ancora oggi, è uno dei brani più famosi di sempre: "Smoke On The Water". Ora, tre decadi dai formidabili concerti "fatti in Giappone", i Deep Purple sono ancora vegeti, pronti a rimettersi in gioco album dopo album, tour dopo tour. E non è stato facile per una band che ha vissuto più vite di un gatto. Nel 1973 la Mark II già non esiste più dopo il licenziamento di Glover e Gillan da parte del sempre più egocentrico Blackmore. Dopo poco, un commesso dalla potente voce blues, David Coverdale, diventa il nuovo frontman degli eroi dell'hard-rock.
Verso la fine dei 70, tuttavia, il gruppo è al collasso e si decide di comune accordo per lo scioglimento. Poi, nel 1984, un lampo: la mitica Mark II torna in pista e i Deep Purple ritrovano nuova vita. Al di là, adesso, di queste storie che sembrano uscite più da una soap opera che da 40 anni di vita di una band, quello che rimane è, ovviamente la musica. In seguito all'abbandono di Lord, Gillan e soci pubblicano "Bananas" nel 2003. La battuta che i Purple sono "alla frutta" circola in modo massiccio tra testate e siti internet, ma non sono affatto malelingue: il disco è un flop artistico clamoroso. In realtà, sembra che la band cerchi di trovare solo un pretesto per tornare in tour. E' quindi necessario ascoltare con cautela questo nuovo lavoro, "Rapture Of The Deep". Come se fosse una ex fidanzata traditrice che cerca di tornare in contatto per ristabilire una fiducia ormai spezzata. Ed è necessario, innanzitutto, partire da una premessa: i Deep Purple non sono più quelli di una volta e, per quanto possano sforzarsi per creatività e coraggio, riusciranno difficilmente a realizzare capolavori come quelli degli anni 70.
Al di là dei buoni successi commerciali di band come gli Aerosmith, è lo stesso hard-rock che, nella sua accezione più classica, ha notevoli difficoltà di reinserimento in un contesto musicale come quello di oggi. E' più che logico che band storiche come i Deep Purple finiscano per tornare, consapevolmente o meno, sui cliché di un tempo ormai andato. Eppure, con una simile quantità di dubbi e uno spirito critico più che acceso, "Rapture Of The Deep" finisce per strappare più di un ascolto e, alla fine, sorprendere per freschezza e piglio creativo. E' vero che nel ritmato orecchiabile "Girls Like That" si ripresenta quella specie di refrain anni 80 di cui "Bananas" era pieno, ma questo disco ha una marcia in più che va cercata e apprezzata pur limitatamente al contesto dell'album stesso.
L'intro di "Money Talks", infatti, sembra riportarci indietro nel tempo insieme ai ghirigori sparsi qui e lì dell'hammond del talentuoso Don Airey, che, sorprendentemente, sembra non far rimpiangere l'ultimo John Lord. "Wrong Man" è un brano tipicamente à-la Purple, con riff e organo a dialogare tra loro con potenza e destrezza, accompagnati da un Gillan particolarmente ispirato che torna a provare gli acuti. E' strano, poi, come lo spirito di Blackmore ancora aleggi su questo gruppo. La title track ricorda molto le scale orientaleggianti usate dal chitarrista nei Rainbow, creando un sound progressive decisamente accattivante.
I Purple sanno rallentare e "Clearly Quite Absurd" è una ballata atipica degna di un Eric Clapton più grezzo. Poi il blues cadenzato di "Don't Let Go" e il sintetizzatore di "Back To Back" spezzano leggermente la tensione del disco. Ian Paice ricorda di essere un grande batterista e il suo tribale à-la Bo Diddley apre "Kiss Tomorrow Goodbye" che ricorda molto la produzione dei tempi di "Fireball". Dopo il rock modesto di "Junkyard Blues", spetta a Gillan il compito di chiudere questo album. "Before Time Began" è una specie di suite in crescendo con una prestazione molto carica e passionale del cantante che, per un attimo, riesce quasi a fermare il tempo ormai passato.
Insomma, "Rapture Of The Deep" non è affatto un capolavoro, ma, considerata l'anagrafe di questi musicisti, è un disco giovane che potrebbe ancora insegnare qualcosa ai tanti "figli adottivi" di oggi.
14/06/2020