Ma procediamo con ordine. Parte la prima traccia, e proprio quando si comincia a pensare che il disco sia solo l’ennesima variazione sul tema Squarepusher-Clark (con un’iniezione di post-elettronica alla Jackson), arriva la bomba, e si chiama "My Beatz". Sensazionale, irresistibile. Si consuma un perfetto matrimonio a tre fra la techno della Motor City, l’estetica electro e tastiere funky della cui esistenza nessuno si è più ricordato dopo Prince. Il "cantato" è uno spoken robotico fra Anthony Rother e quello mitico di Juan Atkins. Nel corso di "Color Strip", poi, non mancano momenti quasi rappati che rimandano alla scena danzereccia inglese a cavallo fra anni 80 e 90 più che a Detroit, o al Tiga di "Louder Than A Bomb" se preferite (è il caso della successiva "I Wanna Be Your STD", già sentita e apprezzata su "Bounce, Make, Model").
Niente di quanto proposto è all’altezza dell’eccellente "My Beatz", però. L’unico filo conduttore di tutto il disco è l’accostamento di stili in brani complessi, ma dalla struttura ritmica relativamente semplice, immediata. Dietro a questo c’è ancora una sostanziale indecisione sulla strada da seguire, e una conseguente incapacità di mettere tutto a fuoco.
In Edgar si sentono gli eco della minimal techno come delle tendenze più "rilassate", a basso voltaggio. Il tessuto electro, anche questo vicino più a un Anthony Rother che alla scuola di Detroit come la conosciamo, si combina con elementi disparati: ritmiche più complesse, vocoder, una certa volontà di sperimentare e un po’ troppi momenti di decompressione.
2006, fuga da Detroit, dunque? Nonostante il titolo, "LBLB Detroit" ricorda soprattutto la Parigi di Etienne De Crécy, notturna e sexy. E complice forse il fatto che Jimmy è un bel ragazzetto, il nostro si gioca la carta dell’ammiccamento sessuale come raramente si vede in elettronica, specie quando ai vocals c’è un uomo (i mugolii!). Sottinteso o esplicito, il sesso è un altro grande invitato, come provano anche le foto nel libretto.
Ma non sempre tutto riesce così bene. Sono certe insistenze ambientali/atmosferiche che non convincono appieno, come l’accoppiata "Personal Information"-"Telautraux". Non sono composizioni brutte in sé, ma sanno irrimediabilmente di già sentito, altrove e con risultati migliori (le vecchie ambientali dei Future Sound Of London, per esempio, o recentemente i 302 Acid). Ed è qui il ventre molle di "Color Strip", è qui che si comincia ad avere l’impressione che forse ritardare l’uscita del primo Lp di un anno e scrivere qualche altro pezzo non sarebbe stata un’idea così malvagia. E’ qui che si notano le maggiori indecisioni. Ballo o ascolto? Tanti bpm o rilassati downtempo? Alla fine pezzi come "Hold It Attach It Connect It" e "Jefferson Interception" non sono né l’uno né l’altro, ed è un peccato, perché sul finale l’album si riprende con forza.
Pur non discostandosi troppo dal modello dei brani che le precedono, "Of The Silent Variety" e "Semierotiic" sono di tutt’altra pasta, così come il rap tecnologico di "Color Strip Warren". Ci piace molto anche la hidden track (è la traccia numero 89), una riuscita e originale idea di pop elettronico demente, ma più che mai consapevole: ancora un diversivo, ma d’impatto.
Per il futuro, a questo punto, c’è da augurarsi che Edgar scelga la sua direzione e si concentri su quella (e invece è di questi giorni la notizia della nascita di una sua linea di moda). Troppa carne al fuoco, spesso, finisce per essere poco cotta. E i pezzi che inevitabilmente si bruciano rischiano di riempire gli occhi di fumo. Anche quelli dei ragazzi più talentuosi.
(13/03/2006)