Joanna Newsom. Ventiquattro anni, californiana senza sembrarlo minimamente.
Arpista, un terzo donna, un terzo elfo, un terzo bambina. Viso e smorfiette da attrice, l'impressione di vivere in un mondo tutto suo.
Un album, "The Milk-Eyed Mender", delizioso, sorprendente, acclamato. Dodici vignette, tenere e gracchianti, dodici favole fra folk tradizionale e cantautorato indipendente (vi rimando alla recensione di Onda Rock per i doverosi approfondimenti).
L'aggettivo che più si trova in riferimento è childish. Lei non gradisce, ma si coglie nel segno.
Due anni per capovolgere un mondo.
La cantante improvvisata guarda oltre, oltre quella che era già una sorpresa.
Prepara cinque composizioni, dai sette ai sedici minuti. Affonda ancor più nelle radici, a partire dall'artwork, in cui diviene bellezza medievale, capelli biondi sciolti e mossi, corona di fiori, finestra sul fiume e sulle montagne, una tenda rossa.
"Ys", questo il nome dell'opera seconda, vive una lunga gestazione. Le prove dal vivo, gli arrangiamenti di archi, le collaborazioni eccellenti.
Il primo lavoro è la stesura, per voce ed arpa, e il primo nome pesante speso è quello di Steve Albini.
Il secondo è l'orchestrazione (per la quale verranno usati trenta elementi), affidata all'immenso maestro Van Dyke Parks, al quale la Newsom presenta direttive e idee, soprattutto riguardo il mood.
Infine, il terzo, dopo la registrazione, è il missaggio, affidato a Jim O'Rourke.
E' esattamente in questo momento che marketing e ambizione si fondono. Filtrano i nomi, inizia il chiacchiericcio: finisce che "Ys", la cui uscita è prevista per novembre, diviene reperibile online sin da settembre.
La storia non è poi tanto diversa da quella degli Arctic Monkeys, anzi "Ys" è per l'indie-indie quello che "Whatever..." era per l'indie-mainstream. E finire in rete molto tempo prima aiuta parecchio la Newsom, il cui disco è di digeribilità non affatto semplice.
E' la spinta finale. I sacri aiutanti, le sacre riviste specializzate, la voce, sacra per la sua diversità, le composizioni, sacre per la loro lunghezza e difficoltà.
Infatuazione intellettuale che non è poi diversa da infatuazione giovanil-ignorante.
Il classico disco di cui non si può parlare male, anzi si deve dir bene.
Approccio così a "Ys" con sentimenti contrastanti: la certezza di un talento, la puzza di un imbroglio, il timore che l'ambizione mandi a puttane le qualità, la speranza che puntando in alto si tiri fuori un capolavoro.
Ad accogliermi è l'immaginifica storia di "Emily", che, col senno di poi, rappresenta anche la cifra stilistica dell'intero disco. Non è una canzone, piuttosto un lungo racconto musicato, intriso di poesia (occhio ai testi). C'è ben poco di rock, c'è molto di folk: il grosso, però, è personalità. L'arpa accompagna, facendo da chitarra, la voce, che è la vera protagonista, assieme alle melodie.
La Newsom ha tagliato le asprezze, che pure erano un valore, del disco d'esordio. Il canto è più misurato, centrato e potente: adattato al campo d'azione di "Ys". Quel che ha perso in vispezza ha preso in focalizzazione.
Il suo è un dono divino, è qualcosa di unico. A venire in mente è Bjork, ma il paragone regge a metà, laddove all'angelicità dell'islandese, la giovane californiana contrappone un timbro molto più umano, e proprio per questo più raro.
Melodicamente colpisce invece la grazia delle linee, che han rotto i ponti con i riferimenti contemporanei, affondando in paesaggi più lontani, eppure meno esplorati, in quanto la Newsom si ritaglia spazi personali, rifuggendo soluzioni sentite, o quanto meno, comode, riuscendo a suonar nuova pur basandosi sull'antico.
L'altro elemento caratteristico sono gli archi, psichedelici, stranianti, spesse volte semplicemente sovrapposti allo sviluppo della canzone, volando su, o entrando in tagli, anche profondi, con l'intento di rappresentare un piano ulteriore, un effetto allucinante (hallucinatory effect, come testualmente afferma la stessa Newsom).
Il risultato, già bellissimo di per sé, è poi nobilitato dal finale, con la voce che cresce e il brano che si velocizza, scandendo in modo accorato quello che potrebbe essere riconosciuto come inciso; andando poi a morire nel congiungimento di arpa e orchestra.
La seconda traccia, "Monkey & Bear", storia di un amore impossibile, porta invece in scena una rappresentazione più tradizionale, se non nella struttura, che resta unica (seppur maggiormente lineare che negli altri pezzi), sicuramente nella melodia e negli archi, dal taglio fortemente classico; eppure sorpesa da un finale thrilling.
La terza, "Sawdust & Diamonds", presenta un'altra variazione al canone, spogliandosi dell'orchestra e basandosi su un ficcante pizzicare d'arpa, a mo' di sonata di piano, appaiato a una recitazione dolce e intensa, scossa dalle aperture emozionali della melodia. Sono i due brani "minori" del disco, pur viaggiando, soprattutto quest'ultima, su livelli di alta scuola.
D'altro canto, "Only Skin" è l'apice della raccolta. Gli elementi di "Emily" sono tutti presenti, ed estremizzati, in sedici minuti e passa di inseguimenti di melodie, a disegnare una meravigliosa struttura in movimento, che scorre fluida grazie ai giochi di rallentamento-ripartenza, dovuti alla deliziosa linea melodica principale, sottolineata, tra gli altri, da fisarmonica e fiati (il suono compatto non permette però di apprezzare più di tanto il singolo apporto, quanto il disegno finale). Il clou, anche in questo caso, è la svolta finale, quando, dopo un lungo passeggiare sugli spuntoni dei violini, Newsom inizia a squittire lanciando il tema principale, cantato in un impeto di grandeur a doppia voce con Bill Callahan (con cui sarà in tour tra qualche giorno) e il baritono di lui molla le redini alle arrampicate di lei, con tanto di note di banjo e percussioni secche a fare da sfondo.
Conclude, senza sfigurare affatto (anzi), "Cosmia", la più "canzone": arpeggi aggraziati e archi gonfi d'emozione, strepitoso sussulto strumentale folkloristico a metà brano, melodia aperta, ed esplicita, come mai era avvenuto ("and I miss your precious heart"), portata al massimo dell'espressività proprio nell'ultimo minuto.
Il gusto che resta è agrodolce, pregno di emozione, con la consapevolezza di aver preso parte a una piccola opera d'arte.
Già, perché smentendo tutti i timori di partenza, è proprio questo che è "Ys". A dispetto di una pesantezza strutturale, vuoi per la lontananza da canoni noti, vuoi per la scelta di usare gli archi (e non solo) in modo spesso disturbante, ci si trova proprio una piccola opera d'arte. Che forse manca della fruibilità, e della forza espressiva in quantità tale da essere dichiarato un capolavoro, ma che non fa rimpiangere la svolta neanche per un secondo uno, regalandoci, anzi, la conferma, ormai certissima, di un'artista curiosa e geniale.
Un gran disco, un disco unico, senza dubbio tra i migliori dell'anno.
01/11/2006