Preannunciata dallo stesso “Widow City” - centrato su interpretazioni e performance più che sulle loro insaziabilità compositive - e dal suo lungo tour conseguente, per i fratelli Friedberger, in arte Fiery Furnaces, si apre senza più indugi una potente parentesi improntata alla dimensione concertistica: “Remember”, primo disco live del duo, ne è dunque la conferma. Ciò non toglie che anche in questo caso le coordinate di partenza siano poco più che un mero pretesto per Eleanor e Matthew; come qualsiasi altro elemento musicale (melodia o canzone, arrangiamento o suite estesa, etc.), anche il disco live dei Fiery Furnaces è un flusso di concatenazioni imprevedibili e trovate eccentriche che poco si cura della fruizione rassicurante (leggi commerciale).
Prima di tutto, l’album (doppio) funziona come una vasta retrospettiva semi-antologica della band. Così, la tracklist si organizza prevalentemente per aree-album: l’area “Gallowsbird’s Bark”, l’area “Blueberry Boat”, l’area “Rehearsing My Choir”, l’area “Bitter Tea” e infine l’area “Widow City”. La successione cronologica è però rispettata solo in parte; non solo, le aree non sono affatto pure, ma anzi voluttuosamente contaminate da reprise e false partenze, brusche interruzioni e continuazioni incoerenti, interferenze di brani provenienti da altre aree e persino intrecci tra aree contigue (o meno). I Fiery Furnaces organizzano così un live strutturato a medley più o meno allungati, o veri e propri flussi armonici irrazionali dai quali fuoriescono canzoni, improvvisazioni o loro miscugli.
Ultimo ma non certo ultimo, la qualità musicale dei singoli brani, i cui nuovi arrangiamenti sono poco o nulla interessati all’aderenza delle loro versioni originali di studio, talora stravolti in liberissime associazioni musica-parole Beefheart-iane, talora dimenticati in luogo di versioni completamente inedite.
Nel primo dei due cd, dopo una “Intro” in cui i segni iconici tipici del live (gli applausi) arrivano a mischiarsi con l’armonia, ci si ritrova in area “Gallowsbird’s Bark”. Sfilano così “Single Again”, su lento incedere ricolmo di percussioni e organetto, una “Two Fat Feet” in versione garage burlesco, “Don't Dance Her Down”. Si arriva quindi a una lunga area “Bitter Tea”, con versioni rimpinzate di quintali di effetti elettronici, da “I'm In No Mood” (con cadenza fedele all’originale, ma dalla gamma tonale completamente virata) a “Little Thatched Hut”, da “Bitter Tea” a “Vietnamese Telephone Ministry” (entrambi in fantastiche rielaborazioni), fino a “Waiting To Know You” (da serenata eccentrica a nevrotica piece in controtempo), “Oh Sweet Woods” (totalmente irriconoscibile), “Whistle Rhapsody” (con scampoli d’improvvisazione per tastiera), “Teach Me Sweetheart” (in versione minimale), e relative reprise.
Nel secondo disco si comincia con l’area “Blueberry Boat”. Tra tutti i numeri offerti, a spiccare sono soprattutto la rilettura dada di “Quay Cur”, lo svarione post-hardcore presente in “My Dog Was Lost”, l’opera rock dissennata alla Magma di “1917”, e la sviolinata circense di “Spaniolated”. L’area “Rehearsing My Choir”, dopo una “Tropical Ice-Land” tartagliante e la tempesta cabaret-punk di “Asthma Attack”, prevede la veste hard-rock per “The Wayward Granddaughter”, il prog rilassato quasi Moody Blues di “The Garfield El”, l’instabile fusion (ma più jazzcore) di “Seven Silver Curses”, le sottolineature hip-hop di “Slavin’ Away” e la spavalda versione di “A Candymaker's Knife in My Handbag”.
Così l’area dedicata a “Widow City”, la più fluida di tutte, inanella in rapida successione la jam iraconda di “Chief Inspector Blancheflower” (dei Big Brother and the Holding Company sovreccitati), una versione più esilarante di “Ex-Guru”, la danza indiavolata di “Automatic Husband” e nuove dissociazioni armoniche (“Navy Nurse” e la finale “Uncle Charlie”).
Collage, più che retrospettiva, che riprende il concetto di live avanzato del Frank Zappa di “Roxy And Elsewhere”, ma - di fatto - ne imposta uno standard per l’inquietudine dei 2000, o una giostra, una girandola che crea, disfa e ricrea di continuo, e che si prende burla persino della loro carriera. Vince quando non lascia scampo, quando strangola strumenti e applausi, tempi morti e sghiribizzi, comprime cataste di elementi armonici, esalta un inesorabile corso musicale senza freni, in cui anche gli stessi freni si mettono a danzare con loro. Imbattibile record d’ingordigia, alla cassa il conto più salato spetta all’esorbitanza di Matthew; Eleanor gigiona, band impeccabile.
06/09/2008