Il quarto album dei National, "Boxer", era riuscito a spiazzare tanto la critica più esigente quanto il pubblico più smaliziato. In un senso, "Boxer" ritrattava in modo quasi reazionario le noncuranti partiture roots di "Alligator" e "Sad Songs For Dirty Lovers", cristallizzandone la proverbiale melanconia in plastici di produzione affatto edulcorati, e anzi grandemente partecipati; dall’altro ne impreziosiva scrittura e intuizioni melodiche, esaltandone timbri, decorazioni e portantine armoniche, pure impostando contrasti chiaroscurali tra più elementi (voce, arrangiamenti, chitarre elettriche e acustiche, e batteria possente). In ultima analisi, "Boxer" ha persino funto da spartiacque per la band stessa, che per festeggiare il primo anno dalla sua uscita (a guisa di atto celebrativo per un qualsiasi classico storico del passato) ha così imbastito un progetto di mediometraggio del suo "making of", e - insieme - ha proposto un Ep che ne raccoglie scarti, versioni live e demo.
"Virginia Ep" raccoglie dunque materiale piuttosto eterogeneo. L’introversa "Without Permission" (andatura britpop, chitarre scampanellanti) e la ballata per piano e ottoni "You've Done It Again, Virginia" sono piccole aggiunte al loro canzoniere. L’aerodinamica "Blank Slate" prosegue blandamente nella direttrice dei momenti più robusti di "Boxer" (specie "Mistaken For Strangers"), mentre "Santaclara" dona una batteria marziale alle ormai quasi classiche lamentazioni di Berninger, "Green Gloves" su tutte. Tra i demo si fanno notare "Rest Of Years", tanto patetica quanto nevrastenica, "Forever After Days", dominata dalla farfisa, ma soprattutto "Tall Saint" (la più rifinita), accompagnata da palpiti di chitarre e tastiere.
La versione live di "Fake Empire" interessa più che altro per come riesce a tradurre le magie di produzione in tocchi estemporanei (i fiati della coda della versione studio sono rimpiazzati da sferzate chitarristiche di tutto punto), mentre quelle di "Mansion On The Hill" e "About Today" riscoprono, rispettivamente, l’attitudine roots e quella noise della band di New York.
In accoppiata con il già citato docu-film sul dietro le quinte del disco madre, vale a dire "A Skin, A Night" (per la regia di Vincent Moon), questo finto Ep di quasi 50 minuti di durata fa la figura - non esattamente nobilitante - di semplice appendice celebrativa senza assi nella manica (o peggio ancora, di pretesto discografico per restare sulla cresta dell’onda il più possibile) con qualche libertario colpo di coda, che meritava maggior ponderazione, e ben definisce il concetto di "completismo di lusso". In "Boxer", per un motivo o per l’altro, spiccavano tutte le canzoni; qui si appiattiscono a vicenda con altrettanto convincimento, live eccettuati. Sorvolabile finezza.
16/07/2008