Scorrendo la lista dei collaboratori, si comprende come i due abbiano voluto fare le cose in grande: Bruce Kaphan (American Music Club, Red House Painters), i batteristi Pat Mastelotto (King Crimson) e Gavin Harrison (Porcupine Tree, King Crimson), il sassofonista e flautista Theo Travis, la London Session Orchestra diretta da Dave Stewart (Hatfield And The North, Egg). Nomi di rilievo che forniranno un contributo essenziale alle sonorità di "Schoolyard Ghosts".
L'avvio è d'una bellezza accecante: i bagliori di "All Sweet Things" illuminano la notte di una luce tenue e tiepida. Nei suoi quasi sette minuti, l'ouverture spazia da una memorabile melodia, che pare uscita da lied ottocenteschi, a un pop barocco degno del miglior Bacharach; soffice e calda, la voce di Bowness si innesta perfettamente su un climax pianistico ben sorretto da chitarre elettriche e acustiche, basso, tastiere e glockenspiel; al moto costante e perpetuo del pianoforte, si sposano tepori electro-noise che, sulla falsariga della "Karma Police" dei Radiohead, paiono soffocare la melodia.
Desertica e vagamente morriconiana, nel suo svelarsi tanto arida quanto melanconica, è la successiva "Beautiful Songs You Should Know": sull'asse portante di chitarre vagamente neofolk, si vanno ad aggiungere tastiere eteree e un violoncello dalle suggestioni medievali.
Ogni traccia è un mondo a parte. Bastino i primi sessanta secondi dell'apocalittica "Pigeon Drummer" per comprendere come il cambio di rotta sia netto e inaspettato. Le reminiscenze progressive di Wilson vengono al pettine in un brano complesso e multiforme: inizio tratteggiato da cori paradisiaci, improvvisamente interrotti da un flusso disordinato e rumoroso di percussioni e mellotron lanciati all'impazzata; un vuoto "nulla" che si dimena indemoniato prima di quietarsi lasciando spazio alle tastiere, in un'atmosfera tetra e dagli affanni gotici. La psichedelia di marca Porcupine Tree emerge invece, con toni fiabeschi e distesi, nella successiva "Truenorth": tredici minuti nei quali l'orchestra apre a visioni celestiali degne degli ultimi Cinematic Orchestra, yang t'chin, sassofono, harmonium e percussioni si alternano in un brano dai contorni cinematografici.
E se l'eterea "Wherever There Is Light" conduce nei sottoboschi più reconditi del dream-pop, i sei minuti di "Song Of The Surf" si sciolgono in un'altra melodia epica e trasognata. Dopo "Streaming", sicuramente la traccia meno riuscita del lotto, il lento fluire finale di "Mixtaped", unendo flauto, piano elettrico e organo, prefigura una sorta di mondo parallelo, nebbioso e indefinito, in bilico tra lo slowcore di matrice Red House Painters e la drone music meno lugubre.
Travalicando qualsiasi genere e confine, i No-Man sono riusciti a creare un sound evocativo e magico, in cui si amalgamano stilemi sonori disparati - dream-pop, slowcore, ambient, rock, progressive - per un album di indubbio fascino, che sarà ricordato tra le migliori uscite dell'anno in corso.
(28/04/2008)