Sono poche le band in circolazione a poter realizzare un album di quasi 80 minuti (in altri tempi di vinilica memoria si sarebbe parlato di leggendari “doppi” o addirittura “tripli”), uscendone illese. Tra queste va annoverata la creatura (e, a ben vedere, l’ossessione) di Anton Newcomb, i Brian Jonestown Massacre. Un gruppo noto nell’ambiente soprattutto per la sua rimarchevole e fluviale prolificità (ai limiti della logorrea) eppure del tutto inattivo sul fronte discografico dal 2005. Anche se c’è da aggiungere che larga parte del catalogo del gruppo è stato oggetto in tempi recenti di una serie di curatissime e fortunate ristampe, che, insieme a un documentario parzialmente biografico di discreto successo (“Dig!”, consigliato), hanno contribuito a far circolare il nome del gruppo in ambienti fino a qualche tempo fa semplicemente irraggiungibili.
In una stagione musicale che ha registrato il ritorno (con dischi mediamente di buon livello) di formazioni legate a doppio filo con i Brian Jonestown Massacre (si pensi soltanto a Black Rebel Motorcycle Club, Dead Meadow e Warlocks, il cui ultimo magniloquente “Heavy Deavy Skull Lover” centra con tutta probabilità il capolavoro di una carriera sofferta), questo “My Bloody Underground” segna forse il momento culminante, per un certo tipo di sonorità.
La recensione più accurata del materiale che sostanzia il nuovo album viene fornita peraltro dal gruppo stesso attraverso lo splendido titolo prescelto: “My” sta a indicare il progressivo e inesorabile sprofondamento nelle vertigini abissali di un inferno privato, “Bloody” si lascia toccare dalla violenza furibonda e sanguinaria di una pazzia irriducibilmente autodistruttiva, “Underground” getta un’ombra sinistra sui sottomondi invisibili di una metropoli degradata e disumanizzante. Per tacere poi delle ovvie citazioni musicali, sotto gli occhi di tutti. Nomi comunque spesi non certo a caso, quelli di My Bloody Valentine e Velvet Underground, anzi, alla luce di quanto ascoltato, sarebbe più appropriato parlare di vere e proprie indicazioni di poetica: basti osservare l’innalzarsi sinuoso e rintronante dell’iniziale “Bring Me The Head…” (che titolo, signori!) per capire che il cerimoniale sconcio e biascicante di “Venus In Furs” è ancora caldo e fremente sotto le ceneri del tempo, reso ancora più mosso e inafferrabile dalle architetture iperboliche e deraglianti di un Kevin Shields (ascoltate “Infinite Wisdom…”, “Golden-Frost”, o la stupefacente “Who Cares Why”), forse mai così forsennatamente assecondato (ripensando alla nutrita ridda di suoi discepoli/epigoni) in tutta la sua sregolatezza immaginativa.
Il fatto poi che il disco sia figlio di una gestazione decisamente europea (le sessioni di registrazione si sono svolte a Liverpool e Reykjavik) e che abbia visto coinvolto uno dei guru indiscussi dell’era shoegaze e dell’epopea Creation, Mark Gardener (leader degli indimenticabili Ride), non fa che confortare certi sentori. Vale a dire un suono esattamente equidistante tra le visioni sgranate della psichedelia più vergine e galoppante degli anni d’oro californiani (si pensi soprattutto a 13Th Floor Elevators, Red Krayola e Grateful Dead) e lo shoegaze più sperso e sproloquiante dell’Inghilterra dei primi anni Novanta, tra deliqui e spirali ubriacanti degni di Spacemen 3, Jesus And Mary Chain, Swervedriver e, come già accennato, My Bloody Valentine.
Non mancano lunghi intermezzi pianistici dal tono semiclassico o interminabili elogi del riverbero (l’impressionante “Just Like Kicking Jesus”, una sorta di seduta spiritica risucchiata nel gorgo di sé stessa), così come canti rituali presumibilmente in islandese (“Ljosmyndir”, degna dei Sigur Rós) o brani dal taglio più rock’n’roll in cui Newcomb veste credibilmente i panni di un Neil Young/Eddie Vedder lugubre e depressivo (“Yeah-Yeah”).
A segnalarsi è soprattutto la vena compositiva di un autore ormai all’apice della sua maturità e nel pieno possesso delle proprie invidiabili capacità espressive, che dopo aver attraversato “sul serio” l’abisso di una feroce tossicodipendenza (non certo facendosi ricoverare in cliniche di riabilitazione per rilanciare una carriera traballante), ha forse oggi trovato l’equilibrio necessario per pedinare le proprie visioni private fino al loro completo disvelamento.
Un disco certamente non facile né immediato, né sottofondo né tappezzeria sonora inoffensiva, che, se preso con la dovuta pazienza e dedizione, sa ripagare (con gli interessi) gli sforzi e la perseveranza degli ascolti.
14/04/2008