I We Are Scientists si fecero conoscere nel 2005 con un disco di esordio molto gradevole e simpatico, "With Love And Squalor", che riuscì a proiettarli per un breve periodo nell'olimpo delle indie-star più amate dal pubblico di settore. All'epoca si parlò di Franz Ferdinand in salsa college-rock statunitense e un fondo di verità c'era senz'altro. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata decisamente parecchia, tutto il revival new wave si è sgonfiato e ha iniziato a trascinarsi su sé stesso nella quasi completa assenza di dischi significativi, e nel frattempo il terzetto di Brooklyn è anche diventato un duo in seguito al forfait del batterista. Eppure il loro ritorno era una delle uscite più attese, a riprova di un forte interesse e di una discreta aspettativa nei confronti delle (non trascurabili) potenzialità del gruppo.
Duole dirlo ma anche i We Are Scientists hanno finito per capitolare sotto i colpi dell'ennesima infatuazione per un suono irrimediabilmente mainstream anni Ottanta, ammalandosi di quello stesso morbo paralizzante che tante vittime illustri ha saputo mietere negli ultimi mesi. Basta prestare orecchio a un pezzo di antiquariato come "Lethal Enforcer" (ma anche la conclusiva "That's What Counts") per capire come il nuovo corso del gruppo preveda iniezioni massicce di voluttuose mollezze new romantic (testimoniate anche dalla a dir poco sorniona copertina), miscelate con riferimenti sparsi all'epopea bowiana di "Let's Dance", a-ha, Simple Minds, i Cure più melensi, Prefab Sprout, Style Council e chi più ne ha più ne metta. E il bello è che la canzone in questione non è neanche così male tra l'altro, anzi.
Quello che stupisce è l'improvviso ammorbidimento delle linee e la caratterizzazione spiccatamente melodica di tutti pezzi, come se i We Are Scientists si fossero improvvisamente tramutati in una versione indie dei Duran Duran (ascoltate le ballatone "Spoken For" e "After Hours"): power-fashion-pop per le nuove generazioni, si sarebbe tentati di dire, colonna sonora ideale per un "O.C." teletrasportato nel 1986, in un cortocircuito virtuoso con "Dallas".
La prima metà del disco, fino alla springsteeniana "Impatience", regge discretamente e si intuisce la scaltrezza tutt'altro che casuale del gruppo nel confezionare mirabili e raffinati falsi d'autore, che al di là delle dispute di metodo denotano un talento entro certi limiti genuino. Poi l'album inizia a sfaldarsi clamorosamente e a perdere i primi pezzi per strada, arrancando tra citazioni stentate sull'asse U2/Editors (l'impalpabile "Impatience"), numeri di synth-pop sfocato e pericolante (la fiacchissima "Altered Beast", degna dei più deprecabili Bravery, o "Chick Lit", sulla scia di B 52’s, Tom Tom Club e ultimi Talking Heads, che riesce parzialmente a mettersi in salvo all'ultimo minuto nel ritornello), che solo a fatica riescono a camuffare, in un carnevale di effetti di seconda mano e voci caoticamente sovraincise, una vena compositiva piuttosto senile e arida nei gusti e nelle strategie a propria disposizione.
L'impressione è quella di un disco "di transizione", pubblicato più per tartassanti obblighi contrattuali che per reale necessità, quasi a colmare un vuoto di produzione protrattosi troppo a lungo. Di sicuro la band ne esce notevolmente ridimensionata, anche nelle sue pretese di affermazione commerciale (chi potrebbe entusiasmarsi per un pezzo mediocre come "Dinosaurs" che neanche i Maroon 5 più urticanti?) e questo dovrebbe far riflettere. Da risentire fra qualche anno (se resisteranno).
16/05/2008