La parabola che ha condotto i Big Pink verso una prevedibile consacrazione nazionale ha avuto un decorso rapidissimo, come ormai siamo fin troppo abituati a osservare, tanto da non stupirci più, alla fin fine. Il duo di giovani polistrumentisti londinesi, dopo una scia flebile di singoli ed Ep azzeccati, che hanno saputo accendere la fiamma di un culto esponenziale, è infatti approdato in meno di un anno all'album di debutto, registrato in solitudine quasi completa a New York e pubblicato dall'autorevole (e orecchiuta) 4AD.
A proposito della cifra stilistica specifica di questa band sono stati tirati in ballo da vari commentatori riferimenti soprattutto di carattere shoegaze e industrial, il che, una volta ascoltate le canzoni, non appare poi così lontano dalla verità. Un umore genericamente intontito, sporcature di synth distorti e opacizzanti, un turbinio scomposto di suoni elettronici campionati che tendono a sovrapporsi in una trama spessa e viscidamente pastosa, sempre sagomata dalle puntellature di drum machine robotiche e martellanti: questi sono gli elementi che più di altri definiscono il suono del gruppo, nel quale si ritrovano echi tanto dei My Bloody Valentine quanto dei tardi e più afasici Primal Scream, così come degli Stone Roses o degli Happy Mondays (riletti però in una chiave notturna e tenebrosamente allucinata, in bilico tra Nine Inch Nails e primi Killing Joke).
Quello che al gruppo non difetta sono senz'altro intelligenza melodica e capacità di costruire canzoni dallo sviluppo spesso interessante. Pur non raggiungendo esiti di particolare profondità o originalità, pezzi come "Velvet", "Dominoes", "Love In Vain" o "Too Young To Love" si lasciano attraversare da una vibrazione emotivamente calda e trascinante, facendo apparire il gruppo come un chiasmo musicalmente credibile tra Klaxons e Deerhunter, un compendio ben riuscito di espressionismo elettronico da piccolo artigianato domestico e i crucci brufolosi di un'adolescenza rimbalzata tra la luce acquosa del Mac e le pareti buie di una cameretta-bozzolo-prigione in cui il mondo inizia e finisce ogni giorno senza spostarsi di un millemetro.
La prima parte dell'album appare ad ogni modo più incisiva e perforante, poi, più o meno all'altezza di "Velvet", il discorso inizia a ingarbugliarsi e a concedersi qualche dejavu non sempre così scontato, ma va anche detto che una cosa del genere è in sé abbastanza prevedibile (e quindi veniale) in un disco d'esordio. Disco che nel complesso regala comunque una prova positiva e convincente, per quanto ancora acerba, a dimostrazione di una scena musicale britannica tutto sommato vivace e propositiva (sebbene ancora troppo spesso ostaggio di sensazionalismi un po' frettolosi) come già osservato a proposito di XX, Wild Beasts o Horrors.
22/09/2009