Come Martin & Lewis, Jack Lemmon e Walter Matthau o Gene Wilder e Richard Prior. Ad ogni strana coppia succede prima o poi di doversene stare alla larga per un bel po’ pur essendo fatti l’uno per l’altro. Così anche Method Man & Red Man, forse i due più famosi situation comedian del rap americano, hanno dovuto aspettare un decennio tondo tondo per dare un seguito al loro acclamato disco d’esordio “Blackout” (1999). E questo nonostante in mezzo non siano mancate le occasioni per lavorare insieme: dozzine di featuring congiunti in dischi propri o altrui, uno show televisivo di successo per la Fox, “How High”, che nel 2001 è diventato anche un film. E una popolarità in costante crescita per il duo anche al di fuori del rap system statunitense.
“Blackout 2” assomiglia, appunto, a una di quelle commedie hollywoodiane girate e prodotte come un meccanismo perfetto per ottimizzare le doti e l’affiatamento degli interpreti principali e i gusti del pubblico di riferimento. Ogni cosa è nella misura in cui dovrebbe essere, tutto perfettamente dosato e bilanciato, senza i rischiosi voli pindarici che comporterebbe un eccessivo spreco di originalità. Ma il divertimento è assicurato, anche perché siamo di fronte, comunque, a grandissimi professionisti nel loro genere. Attenuate le marcate sfumature horror-funk del primo capitolo, Method Man & Red Man propongono un hip-hop con le radici ben piazzate nell’underground (il Wu-Tang Clan, ovviamente, per il primo, la Def Squad e la scuola degli EPMD, per il secondo) e il fusto e la chioma protesi nel mainstream fino a lambire l’r’n’b e il pop da classifica più spudorato (ma non degenerato).
Anche le liriche sono quelle che ti aspetti da due giullari come loro, inutile setacciare i testi alla ricerca di un barlume di seriosità: umorismo demenziale à-la “Chapelle Show”, avànce pepate al gentil sesso, inni sperticati alla cannabis di cui i due rapper sono immarcescibili cultori, autoesaltazione di prammatica e bizzarri virtuosismi associativi.
Il risultato è un disco eclettico (come si evince anche dal numero esorbitante di produttori dalle attitudini così diverse: da Erick Sermon a Rockwilder, da Pete Rock a Bink!), catchy, acrobatico, che non disdegna escursioni di raffinatissima fattura. Dalla matrice mtv friendly di “Hey Zulu” e “I Know Sumptn” ad anthem battenti e bombastici come “Errbody Scream”, “Neva Herd Dis B 4” e “Dangerus Mcees” (passo scarno e hardcore e armonie adeguatamente innodiche); dal g-funk di “A-Yo” (morbida e soul), “A Lil Bit” (sexy e ballabile) e “City Lights” (più serrata e tagliente) allo stringato “bumbap” sintetico di “I’m Done Nigga” e “How Bout Dat”.
Una sufficienza più che meritata, fin qui, visto che i pezzi che alzano il voto e fanno la differenza abbiamo preferito tenerli per ultimo: a cominciare dal singolo “Mrs International”, ballad rap-soul in smagliante abito Motown (il campione è dei Blue Notes), proseguendo con “Father’s Day”, oldschool ultra-minimale animata da un timbro blaxploitation acido e riverberato, e concludendo in bellezza con “4 Minutes To Lock Down”, street-rap scarno e tirato con lo sbuffo dei fiati a loop su cassa e rullante e i featuring imprescindibili di due fuoriclasse del Clan come Raekwon e Ghostface Killah (la cui strofa, in particolare, è un gioiellino hardboiled).
Hip-hop medio d’autore per un blockbuster che, tutto sommato, ha le carte in regole per mettere d’accordo pubblico e critica. Anche se riconferma la regola non scritta che raramente un sequel eguaglia (o supera) l’originale.
23/08/2009