A sentire “Quarzo”, sembrerebbe in atto una sorta di normalizzazione nell'ambiguo universo sonoro dei Bachi da Pietra. Ma uso volontariamente il condizionale, perché il “blues urbano” (come ebbe a definirlo qualche anno fa l’amico Ciarletta) del duo Succi-Dorella, pur se a tratti si rischiara sotto i colpi di una dinamicità più pronunciata (“Bignami”, “Dragamine”), conserva ancora un’aura di inquietante, fosco ermetismo. Per averne la certezza, basta, infatti, confrontarsi con i primissimi secondi di “Pietra della gogna”, il cui pulsare sinistro e soffocato (rievocato anche nella successiva “Pietra per pane”) adombra screzi minimi, confusioni di carne e di buio, tripudi sommersi di angosce e tacite disperazioni.
La ricerca di una via d’uscita costringe questo suono a essere ramingo tra le sue stesse viscere. Ma si tratta, questa volta, di viscere poco sanguinolente, a tratti quasi essiccate. Certo, per quanto mi riguarda, nemmeno in precedenza i due erano riusciti a realizzare un’opera veramente compiuta, ma almeno mantenevano desta l’attenzione, riuscendo, spesso e volentieri, a trafiggere il cuore con efferati colpi bassi. “Quarzo”, invece, si adagia lentamente su se stesso, comunicando una sensazione di stanchezza.
Forse che la formula inizia a mostrare la corda? Forse che non basta più nascondersi nell’ombra e declamare/masticare parole come belve ferite? Domande che troveranno una risposta, mi auguro, soltanto tra le pieghe del prossimo lavoro. Nell’attesa, bisogna accontentarsi del quasi trip-hop (!) di “Orologeria”, della sonnolenza crepuscolare di “Fine pena”, dell’andazzo malconcio e svogliato della mediocre “Muta” o del Tom Waits vampiro di “Notte delle blatte”.
Insomma, prendere o lasciare. Io sono per la seconda…
06/10/2010