Rieccoci alle prese con una delle band più quotate, se si guarda a quanto rimane del rock'n roll contemporaneo: i Black Rebel Motorcycle Club. Dagli esordi all'argento vivo (ancora possibile una "Whatever Happened To My Rock'n Roll?"), passando per la parentesi, peraltro convincente, di ri-immersione roots di "Howl", la band californiana pare essersi riattestata su un rimpasto edulcorato delle proprie esperienze. Il loro è un sound indubbiamente riconoscibile, la batteria roboante, il wall of sound chitarristico, lo snarl di Hayes e Been che si alternano al microfono... "Beat The Devil's Tattoo", dopo una serie di vicissitudini con le proprie case discografiche, prima la Virgin poi la britannica Echo, viene sostanzialmente autoprodotto e pubblicato dalla loro etichetta, la Abstract Dragon, sotto il cartello Cooperative.
Questo nuovo lavoro dei BRMC è, prima di tutto, qualcosa di decisamente impegnativo. Non tanto per la lunghezza (circa 66 minuti per 13 tracce), già marchio di fabbrica in quella sorta di sussidiario rock che è "Howl", quanto per la manifesta pesantezza che caratterizza lo sviluppo del disco. Ai pezzi di "Beat The Devil's Tattoo" manca il cambio di passo; spesso le composizioni dei BRMC si sono contraddistinte per la semplicità e l'immediatezza, ma in questo caso il sottile confine con la banalità è spesso oltrepassato.
Che provino a riesumare le atmosfere fumose di "Baby 81", quel blues-rock tagliente e venato di shoegaze e psichedelia (la simpatica "Conscience Killer" e "Mama Taught Me Better"), o che rimastichino le ugualmente essenziali, ma azzeccate ballate acustiche di "Howl" in motivetti in maggiore facili facili ("Sweet Feeling" e "The Toll")... La stanca "Long Way Down" vorrebbe forse essere una rivisitazione di "Promise" (da "Howl")? Purtroppo, nel confronto con lavori precedenti, i pezzi di "Beat The Devil's Tattoo" escono invariabilmente sconfitti.
Allo stesso tempo, i Nostri sono incorsi in un fuoco di fila del tutto immeritato, se si guarda all'accoglienza in rete del disco. E' evidente che l'ispirazione latita in questo periodo della loro carriera, lo testimonia la marcata somiglianza nell'andamento dei pezzi, un continuo ricorso a questo torbido incedere in quattro quarti (da dimenticare, in particolar modo, l'inconcludente "Aya"), quando i Nostri hanno ampiamente dimostrato, ormai, di convincere maggiormente quando riescono a variare registro, regalando magari qualche momento più coinvolgente anche su disco (come nella divertente "Weapon Of Choice" del lavoro precedente).
Sembra, ad esempio, poco necessaria la dilatazione di "Half-State", lunga jam psichedelica che chiude il disco: che i BRMC non rischino di prendersi troppo sul serio? Sarebbe un peccato, perché parevano essersi avviati su un cammino molto diverso: una riproposizione pungente ma anche (auto)ironica dei cliché del rock, proposta ora un po' offuscata.
12/03/2010