Registrato in pieno 2005, poco prima dell’uscita di Still e poco dopo il rilascio di “Absence” (quindi prima della raccolta “Deadverse Massive” e i due nuovi long-playing su Ipecac, “Abandoned Language” e “Gutter Tactics”), e disponibile solo in tiratura limitata per la felice serie Latitudes della Sourthern Records, i quarantaquattro minuti dell’”Untitled” dei Dalek costituiscono il loro più solenne flusso di coscienza, in cui elementi mediorientali, ammassi gassosi di vocabolari rap (un Prefuse73 reso colossale), silenzi scioccanti e concertazioni dissonanti entrano in collisione l’un con l’altro senza vincitori né vinti, ma rimanendo pura collisione di gestalt casuali.
La maxi-suite è divisa in sei parti, con qualche intermezzo. La prima attacca da un pianissimo di effetti stereofonici, vibrazioni, organo distante e voci affastellate. Il rap vero e proprio inizio solo quando emerge un accompagnamento di mandolino psichedelico free-form. Nella seconda parte gli effetti aumentano deformando i sovratoni e esaltando la catena continua di voci "black" perennemente distorte in sottofondo, fino a diventare vere abrasioni industriali dietro cui si nasconde il flow.
Nella terza parte tabla e organo si portano in primo piano, l'una diventando mitraglia tribale, l'altro voragine drone fatta di tutte le sorgenti ascoltate in precedenza. La quarta mostra, per la prima volta, una parvenza di beat canonico (comunque appena accennato), su ruggiti cacofonici Jimi Hendrix-iani.
Qualche minuto di accordi leggiadri di pianoforte contrapposti a radiazioni elettromagnetiche funge da transizione silente. Quindi fa sfoggio il loro sound più usuale (colate laviche di distorsione, beat inesorabile), ma accentuate da sciabolate verbali e dissonanze elettroniche, un po' il loro "Krautrock" dei Faust. Un silenzio improvviso caratteriza la sesta e ultima parte, un clima che - per il loro standard - è una pastorale di banjo e organo, appena screziato dalle solite parole rap radioattive (ormai diventate melme elettroniche inintelliggibili), un lungo delirio di suspense che sfocia in un ultimo motto esistenziale.
Il loro ultimo e più importante nadir artistico. Un poema hip-hop che ha dell'assoluto - e del vertiginoso - nel trafugare le ispirazioni e renderle saggio di e sull'incomunicabilità; un caso strepitoso di collezione di eresie mutanti, di sfregi e ammassi monumentali, il primo viaggio dantesco della black music.
25/01/2011