Proprio vero che a volte il bello arriva quando non lo si aspetta. Quando non lo si pianifica con il lavoro, non lo si celebra come un idolo e non lo si relega a forma fatta nel catalogo delle proprie ossessioni.
Il modo più rapido per chiudere una porta sul passato è seppellirsi nei dettagli, scriveva qualcuno. Hugo Race è la testimonianza vivente della validità dell’adagio, misurato al netto di tutta quella torma di stereotipi e pregiudizi che sembra non aver mai smesso di braccare un musicista in fuga perenne, da se stesso e dai propri luminosi trascorsi. In fondo è difficile stare fermi quando di cognome si fa “Corsa”, anche se il biglietto vincente lo si è speso alla primissima occasione incontrata, magari con un giro mozzafiato sulle montagne russe più alte di tutta l’Australia. Un battesimo del fuoco con i Birthday Party ormai al capolinea, ed un lustro di convulsa militanza nei primi Bad Seeds (da ‘From Her To Eternity’ a ‘Tender Prey’, con una media di un album di culto per anno) varrebbero da soli una carriera extralusso ben al di là del lecito sognare, ma per Hugo hanno rappresentato più una croce che non la delizia di chi ritiene di avercela fatta. Race non si è sentito arrivato a vent’anni, quando girava il mondo sullo stesso bus di Nick Cave, come non si è scoraggiato al termine di quella fugace ma intensa esperienza. Soprattutto non si è mai arreso ad un destino di rendita comoda e di patetica sopravvivenza artistica. Solo l’orgoglio gli ha evitato la spietata condanna ad una vita di eterne repliche, la caricatura di quei miseri quindici minuti di fama tratteggiati con sempre minor mordente.
Non è così che doveva andare, un po’ come per questo nuovo album. Qualcosa di non preventivato, qualcosa che semplicemente è accaduto, racconta lui. Un breve soggiorno nella Romagna interna al termine di un lungo tour con i True Spirit, cercando di far fruttare un riposo forzato scrivendo di morte, solitudine, umana insignificanza. Funestate dalla polmonite, le session del disco si sono rivelate febbrili nel vero senso della parola. Oltremodo provato dalle sue condizioni, Race ha inciso pochissime registrazioni passando poi la mano all’improvvisata band di amici, per lo più italiani, rinunciando anche al suo consueto lavoro di produttore, evento rarissimo. "Fatalists" tuttavia si è fatto, ritratto dell’artista da degente irrequieto e premio alla sua tenacia. Con un titolo che è esso stesso autobiografico, perché spesso il fato ha altri programmi per noi: in pratica la fotografia di un temperamento. Bianco e nero dal forte contrasto, di finissima grana. In questa chiave bisogna leggerlo, un’istantanea da affiancare alle altre – innumerevoli – in un lungo percorso di perfezionamento, dagli eccessi scapigliati degli esordi sino all’arida desolazione Americana delle più recenti incarnazioni.
E dall’ambizioso lirismo eighties dei Wreckery alla ventennale avventura berlinese con i True Spirit ne ha collezionati di autoscatti questo ruvido giramondo, una raccolta esagerata di progetti e collateralità varie in grado di proiettare i confini della sua nicchia nelle direzioni più disparate: elettronica (Transfargo), lounge (Merola Matrix) e folk (Dirtmusic), in ottica intimista (Sepiatone) o largamente partecipata (il circo Songs With Other Strangers). Nel medesimo anno dell’ultima collaborazione con Chris & Chris (Brokaw ed Eckman), questo ritorno di Race alla semplice firma in prima persona ha tutto il sapore di un limpido e distaccato consuntivo. Lontano dagli impegni ufficiali con la Glitterhouse, libero da ogni sorta di condizionamento, sereno nella sua sommessa amarezza. Un back to the basic che è autentico bisogno di purezza, urgenza di silenziare le tentazioni spurie della propria creatività onnivora per guardare dentro di sé senza schermi deformanti. Dalle tenebre di "Call Her Name" ecco affiorare allora una melodia scarnificata: un lampo, accanto a evanescenti fantasmi elettrici, il palpito di un cuore nero tra i remoti esorcismi di un giorno senza luce, come negli ultimi Giant Sand.
Sullo stesso insidioso terreno di tradizione, la rilettura di standard classici promossa in "Nightvision" è disinvolta e personale quanto basta, senza lesinare su detriti e grovigli umorali, sulla polvere delle chitarre, sulla fermezza di una voce ferita ma robusta. Tra le due vette dell’album – disposte con saggezza in guisa di cornice – tutta l’onestà e la malia visionaria di cui il songwriting arso di Hugo è capace. L’evasione dietro a un duetto che scongiura il rischio dello sterile ed autoreferenziale canovaccio maudit ("Wake Up"), il minimalismo rock-blues che è sempre perfetto per una scrittura aguzza e nervosa come la sua ("Slow Fry", gli orli di un classicismo alt-country di bella presenza ("Zeroes"). E poi il deserto, che arriva dappertutto. Non tanto quello della roca, fin troppo facile citazione del Lead Belly di "In The Pines", perché sono le vaghe ombre sulla sabbia a lasciare il segno, gli oscuri presagi del folk trasfigurato come si suonava negli anni novanta: con maggior quiete rispetto ad un David Eugene Edwards, con meno lacerazioni di un Howe Gelb, pur rivelando intatta la profonda affinità estetica e poetica nei confronti di entrambi. Questa la confessione del cantautore fatalista, lacunoso e negligente in fatto di risposte attese eccetto quando si fa trovare nel luogo prefissato e all’ora stabilita per un’ultima beffa, l’uovo del serpente.
Quelle inflessioni western crepuscolari, l’insistito fare decadente di una voce che diresti falsa, non conoscendola, riportano al perfetto punto d’incontro tra il Lanegan delle "Field Songs" e il Cave di "Firstborn". Solo per farli fuori però, per mettere a fuoco tanta inutile enfasi. E per sbarazzarsi una buona volta della loro ingrata presenza, naturalmente.
24/03/2016