Per una creatura musicale, il traguardo dei trent’anni non è proprio di quelli che si taglino tutti i giorni. Ne è ben consapevole un veterano dell’alternative come Howe Gelb, che per i suoi Giant Sand ha deciso di festeggiare una simile ricorrenza con tutti gli onori del caso. Ha chiamato a raccolta i mille satelliti di un gruppo da sempre fluido e apertissimo alle collaborazioni anche occasionali – la cui componente danese diventa oggi maggioritaria con gli innesti di Iris Jakobsen e Asger Christiansen (accanto agli ormai irrinunciabili Thøger Lund, Peter Dombernowsky e Anders Pedersen, insieme anche nel progetto carbonaro DeSoto Caucus) – e con loro ha voluto tracciare una specie di consuntivo, registrando l’ennesima raccolta di inediti negli studi di mezzo mondo, da Portland a Berlino, da New Orleans a Bristol, e imbarcando strada facendo nel progetto la consueta sfilza di amici e ospiti extra-lusso, dal Grant-Lee Phillips protagonista di un recente tour a due voci con lui a Jason Lytle dei Grandaddy, da Steve Shelley a John Parish (che coproduce con il frontman), e da Vinicio Capossela ai Sacri Cuori.
Il frutto di tanta nomade frenesia è “Heartbreak Pass”, ventunesimo album con quest’insegna al netto di bootleg ufficiali e occasioni compilative, degnamente rappresentato in chiave identitaria da un’introduzione dal buffo titolo (“Heaventually”) che è pura arte di arrangiarsi come da repertorio dell’autore, un desert-folk pulviscolare, abborracciato e accattone, già incontrato nelle sue più recenti prove soliste: discontinuo, incoerente e marginale quanto si vuole, anche se seguire il suo vagabondare in questa fascinosa miseria di frontiera rimane un diletto impagabile.
La stessa incarnazione frammentaria ma gagliarda torna a più riprese, con la sua verve ciarliera, la leggerezza zampettante di un songwriting effimero ma contagioso (da navigato bluesman in “Song So Wrong”), la sua essenzialità, le sue ombre e altrettante radiose aperture, rappresentate in “Man On A String” dall’irruzione dei violini e dal duetto con una Lonna Kelley al solito sensuale e in parte (non a caso quasi co-protagonista in un segmento, il secondo, più orientato in senso tradizionalista). Anche tra le pieghe di “Eye Opening” le coloriture tendono all’introspezione, ancora nel solco dei soliloqui del “Coincidentalista”, ma il tono si conferma piacevolmente ispirato, carico di suggestioni come di promesse appena sussurrate, e nel contempo rasserenato.
Nella prima parte, soprattutto, sembra di riascoltare la band scherzosa e sbrindellata di certi lavori minori ma godibilissimi come “Cover Magazine”, ed è proprio in questa sua comfort zone che il sornione Howe piazza alcune delle sue zampate più convincenti, tra indole ludica e romanticismo polveroso. Scarnificato, riarso e incisivo ma anche ecumenico per spirito, come uno sciamano, Gelb pilota il suo collettivo senza alcuna incertezza, fregandosene di poter suonare talvolta autoreferenziale e, sostanzialmente, divertendosi come un ragazzino alle prime armi. Il risultato non potrà che essere etichettato come weird, ma la sua vivacità non è di quelle che lascino indifferenti, almeno per chi è già abituato ad assecondare la vena eccentrica di questi mattacchioni di stanza in Arizona.
Una chitarra pezzente che lascia spurgare senza troppo riguardo la propria anima elettrica impreziosisce un sound scalcagnato come nei giorni migliori (“Hurtin’ Habit”) mentre il tocco di Lytle (“Transponder”), tra gorgheggi infantili e ralenti grotteschi, veste meravigliosamente l’istrionico performer di Tucson, donando alla sua musica un sapore sci-fi di terz’ordine davvero intrigante.
Poco oltre, il Nostro continua con le sue felici stilizzazioni di marca Americana, senza particolari sorprese ma con il giusto entusiasmo e ben assecondato dai sodali, un po’ come nella parentesi a nome Giant Giant Sand (“Home Sweat Home”) di qualche stagione fa. “Every Now And Then” mostra invece come il taglio frugale possa anche farsi più intimista, avvicinando il pauperismo country dell’ultimo Bonnie Prince Billy, caloroso e nient’affatto crudo, con in più fiati e aromi latin che accentuano il tono disimpegnato e festoso di questa operazione. Per più inquiete evocazioni o il consueto, fascinoso, fondo di mestizia tratteggiato al piano, sono sufficienti gli occasionali incontri malinconici delle due voci (l’emblema qui si intitola “Pen To Paper”), talvolta con una levità preziosa che stempera le angosce e dona un bel respiro.
L’ennesimo gioco di parole inaugura con “Bitter Suite”, strumentale in odore di camerismo, un ultimo terzo di album all’insegna di una più smaliziata leggerezza, dove si rievocano in un amen le fragranze domestiche dei Rachel’s (posatissimi) degli anni Novanta. La quiete luminosa e partecipata viene accesa solo a tratti da una tromba (“Gone”), oppure si fa confidenziale compagna in una bozza folk davvero franca nella sua imperfezione (“House In Order”): è l’umanesimo dei Giant Sand in una sorta di paradigma elusivo e senza troppe pretese che, nel congedo in bassa fedeltà (e in presa diretta) di “Forever And Always”, si schiude in un incontro padre figlia (la dodicenne Talula) di estrema dolcezza.
“Heartbreak Pass” si lascia apprezzare così come un’opera multiforme, stilisticamente guizzante, che non teme di offrire anche brutture e difformità alquanto gustose. Mancano, a ben vedere, i formidabili fantasmi di opere come “Provisions”, ma, al di là di questa pur significativa assenza, il compendio può dirsi tutto sommato completo e avvincente.
E ora sotto con i prossimi trenta, Howe…
30/10/2015