È il 1989: Nick Cave approda a San Paolo, in Brasile, ultima tappa del suo tormentato itinerario che dalla natìa Melbourne lo ha portato a Londra, Berlino, New York. Ma quello che arriva nella città brasiliana è un Nick Cave diverso dal cantastorie forsennato dei tempi dei Birthday Party o dei primi dischi con i Bad Seeds: nei due anni precedenti l'artista australiano è uscito dall'inferno della tossicodipendenza, ha pubblicato il suo primo romanzo e un disco di grande spessore e ambizione come "Tender Prey", che già conteneva quei semi che fioriranno in tutto il loro splendore in questo "Good Son", ha trovato nella religione e nei mille dubbi che questa gli pone un motivo in più di ispirazione. E in Brasile incontra la donna che di lì a poco gli darà il suo primo figlio. Quello che arriva a San Paolo è insomma un Nick Cave cresciuto come uomo e come artista, pronto a lasciarsi alle spalle il passato e a dare vita al suo capolavoro, all'opera che lo consacrerà definitivamente tra i più grandi cantautori di sempre.
Lo accompagnano al solito i fidi Bad Seeds capeggiati dal talento di Mick Harvey (basso, chitarra acustica, vibrafono, arrangiamenti) e dal carisma di Blixa Bargeld (chitarra e voce) con in più Kid Powers (chitarra) e Thomas Wydler (batteria), a formare un complesso d'eccezione, perfettamente affiatato ed equilibrato.
Si parte con la melodia lenta, serena e rassegnata di "Foi Na Cruz", traboccante di "saudade", quanto di più triste, commovente e raffinato sia mai uscito dalla penna di Nick Cave: gli splendidi arrangiamenti d'archi curati da Harvey impreziosiscono le canzoni senza essere mai invadenti o pomposi, bensì distendendosi con la stessa impeccabile compostezza con cui i Bad Seeds accompagnano l'accorata preghiera del cantante.
Il percorso dell'album sarà da qui in poi un continuo alternarsi di atmosfere inquiete e instabili e di ballate dal passo lento e solenne. Perfetto esempio di tutto ciò è la title-track, un lungo, schizofrenico delirio, in cui Cave sublima tutti i suoi sensi di colpa e la sua ansia di redenzione, alternando un nevrotico crescendo carico di angoscia a cori gospel e meravigliose quanto inaspettate aperture sinfoniche. E come descrivere poi la bellezza di una ballad come "Sorrow's Child", carica di un fascino arcano e misterioso: il canto cavernoso e lugubre di Cave raggiunge qui il culmine della sua potente, terribile intensità, così come è al vertice la sua abilità di songwriter, mentre i Bad Seeds lo assecondando con una classe e un gusto senza pari. Basterebbe già questo eccezionale trittico d'apertura a rendere immortale questo album.
Condotta a un ritmo di bossanova languido e ipnotico, "The Weeping Song" si snoda sul duetto tra Bargeld e Cave, che impersonano rispettivamente un padre e un figlio mentre osservano sconcertati come tutti intorno a loro siano in preda alla disperazione. Un brano sinistro e minaccioso, forse il momento più oscuro e pessimista dell'opera, tutto l'opposto della successiva "Ship Song", elegante ballata dal sapore quasi fiabesco. Ancora un brusco cambio di registro arriva con "The Hammer Song", pezzo che i Bad Seeds colorano di volta in volta di toni western e noir, esotici e apocalittici, mentre Cave rispolvera per l'occasione i vecchi panni del predicatore indemoniato. "Lament" torna invece ad avvolgere con languide aperture sinfoniche e con melodie suadenti, in uno stile classico, se non addirittura retrò, di grande finezza.
Il travolgente spiritual di "The Witness Song", un'altra geniale prova di trasformismo da parte di Cave e compagni, fa da preludio alla meravigliosa malinconia notturna di "Lucy", un canto d'amore e dolore che sfuma in una coda onirica, a chiudere l'album su note romantiche e sconsolate.
Pochissimi altri artisti sono paragonabili a Nick Cave come capacità di suscitare emozioni tanto contrastanti e tanto forti, così come pochissimi altri possono vantare la sua abilità evocativa. E mai come in quest'opera, le storie narrate da Cave sembrano realmente materializzarsi davanti ai nostri occhi, come fossimo spettatori "invisibili" di una rappresentazione sacra. E allora eccoci lì sulla sponda del fiume seduti accanto a loro, al "buon figlio", alla "figlia del dolore" e a tutti gli altri personaggi che danno vita a quest'opera: il fiume, l'acqua sono figure onnipresenti nel disco, a rappresentare la voglia di purezza e di salvezza, simboli mistici che sembrano voler bilanciare le lacrime, queste invece reali e concrete, che vengono versate dovunque, da tutti i personaggi, in tutte le canzoni.
Per il suo valore e spessore musicale, ma anche letterario, poetico e per il suo fortissimo impatto emozionale, "The Good Son" è a tutti gli effetti un'opera preziosissima e irripetibile. Nessun altro disco del cantautore australiano ha più raggiunto né con ogni probabilità riuscirà più a raggiungere una così devastante intensità e una così imponente bellezza.
27/10/2006