Il manuale del critico diffidente vorrebbe che, quando un gruppo (o chi per esso) tira fuori la storiella logorata del ritorno alla purezza compositiva degli esordi, ci si debba aspettare riletture piacevolmente didascaliche (nella migliore delle ipotesi) oppure bislacche autoparodie (nella peggiore). Non è questo il caso specifico dei Guillemots, brillante quartetto cosmopolita alle dipendenze del molleggiato compositore Fyfe Dangerfield, che torna in questi giorni con il terzo album di inediti, a tre anni dal controverso "Red", premiato dalle classifiche ma crivellato di impietose stroncature da parte di critica e irriducibili della primissima ora. In questi tre anni di silenzio c'è stato anche il tempo per una sortita solista alla Jimmy Webb dello stesso Dangerfield, "Fly Yellow Moon", non certo destinata a lasciare ricordi troppo indelebili.
A guardarlo bene, "Walk The River" è un lavoro che non azzera la storia del gruppo né innesca un conto alla rovescia verso la sua conclusiva implosione. Già a un primo ascolto l'insieme appare caratterizzato da una scrittura misurata che si muove con decorosa eleganza lungo il registro della ballad melanconica. Tant'è vero che ognuna delle dodici canzoni in scaletta pare essere, in modo sempre diverso, l'ultima. Non devono dunque ingannare i coriandoli space-pop e le fosforescenze rutilanti del singolo "The Basket": "Walk The River" è un disco agrodolce costruito sull'economia furtiva di piccoli commiati e addii romantici, nel quale predominano, sin dall'iniziale brano eponimo, raffinate tinte pastello e un culto calligrafico per le sfumature (si ascoltino momenti calibratissimi come "Sometimes I Remember Wrong", "Dancing In The Devil's Shoes" o "I Don't Feel Amazing Now", in cui peraltro la cifra stilistica della band si lascia fruire in tutta la sua maturità espressiva).
Abbandonate provvisoriamente le velleità new-pop (in odore di Abc) dei trascorsi più recenti, i quattro accantonano la generosa facondia da svolazzante big band in miniatura che li aveva resi celebri, stritolandoli, come una dorata camicia di forza, nelle loro stesse nebulose ambizioni, per abbracciare un'esercitazione nostalgica in punta di dita, come se, a tratti, la vecchia "Sao Paulo" fosse nel frattempo diventata una genealogia di infinite canzoni possibili o un sentimento.
Le predilezioni e le influenze enciclopediche del gruppo si ritrovano tutte, per la gioia di archeologi ed eruditi scolasti del pop britannico (Aztec Camera, Haircut 100, Matt Bianco, Naked Eyes, Thompson Twins, Electric Light Orchestra, China Crisis e chi più ne ha più ne metta), incastonate l'una dentro nell'altra, attraverso un marchingegno illusionistico che combina ariette da music-hall postmoderno ("Ice Room", "Vermillion"), scarabocchi clowneschi dolceamari ("Tigers") e numeri di prestidigitazione romantica (la lunga e nebbiosa "Yesterday Is Dead").
Su tutto questo, però, la band stende la coperta di un morbido rapimento illanguidito facendo di "Walk The River" un album che racconta tutto ciò che accade dopo l'incanto. Il che, detto a proposito di una band che a suo tempo ci aveva iniziato alle gioie di uno spettacolo destinato a durare per sempre, potrebbe deludere non poco. Ma forse le cose non sono mai state davvero così semplici, come i versi di "Ice Room" aiutano a capire: "Oh I'm so alive, I'm so alive/ but I can't stop the tears from falling down".
02/05/2011