"Passano gli anni, ma otto son lunghi..." cantava il molleggiato. Tanti ne sono passati da "Bubblegum", ultimo lavoro a firma di Mark Lanegan, e tanti ne ha passati il nostro tra collaborazioni con gli amici QOTSA, duetti con la dolce Isobel Campbell, side projects con l'amico Greg Dulli (Gutter Twins e Twilight Singers) o "prestazioni di servizio" per altri, dando adito a tutta una serie di critiche e frecciatine sulla sua poca ispirazione o sul suo continuo prestarsi come fosse diventato ormai solo un buon gregario.
Ma Lanegan da Ellensburg non è solo una bella voce da inserire in un brano per conferirgli quell'umore unico che solo la sua roca ugola sa dare, e allora riuniti vecchi e nuovi amici (Dulli, Homme, Alain Johannes e Jack Irons) ritorna padrone del proprio destino ad affrontare una nuova avventura, e siccome non è neanche un pantofolaio cerca pure di spiazzare. Sì, perché se siete fan del buon Mark come il sottoscritto, vi sfido a giurare su ciò che vi è di più sacro che dopo i primi ascolti di "Blues Funeral" non vi siate sentiti un pò così... diciamo disorientati; non subito, no, perché il subdolo all'inizio ci propina un gran bel rock-blues rauco e sgroppante come certe cose di "Here Comes..." ("Gravedigger's Song"), poi ci delizia con un mellifluo blues sensuale come i solchi di "Whiskey For The Holy Ghosts" ("Bleeding Muddy Water") e, a seguire, le vene psych-folk di "Gray Goes Black" e quelle spiritual di "St. Louis Elegy".
Ma già in quest'ultima senti che si è infiltrato qualcosa, leggero, sì, ma lo noti, diverso... fai finta di niente anche perché nelle chitarre della rockeggiante "Riot In My House" senti le reminiscenze ancora fresche di "Bubblegum", ma come inizia "Ode To Sad Disco" (che ti eri già chiesto qualcosa leggendo il titolo, diciamolo...) ti trovi a chiederti cosa ci facciano questi synth e queste drum-machine in un disco di Lanegan. Pare un remix, "Ode To Sad Disco", come se, che so, i Pet Shop Boys lavorassero su una canzone di Lanegan. Strano, mica gli sarà venuta la mania degli anni 80, eh? O un amore sbocciato per l'elettronica dopo aver frequentato i Soulsavers, maledetti.
No. La fiducia rimane salda. "Phantasmagoria Blues", con quell'aria country-folk da deserto, ci fa dimenticare l'episodio, ma quando lo stoner di "Quiver Syndrome" si tinge di tocchi e scampanellii elettro-glam e arrivano pure i singulti pop eighties di "Harborview Hospital" il pensiero si fa più insistente; che l'oscuro folk-bluesman si sia infatuato di questo sound e stia cercando altre vie per ringiovanire la sua proposta? Non ci aiutano molto le svisate di tastiera e i cori nella trascinata "Leviathan", né i fiati folk dell'evanescente "Deep Black Vanishing Train", se non lasciarci ancora confusi per poi perderci nelle spire lente e cariche di effetti dei sette minuti di "Tiny Grain Of Truth".
Alla fine c'è un bel da fare a raccapezzarsi con questo "Blues Funeral", labirintico dilemma d'identità e d'intenti, nel quale Lanegan oscilla tra il vecchio e quello che forse potrebbe essere il nuovo. Per ora sembra prevalere la strada vecchia, nella quale il songwriter americano riesce sempre a dare il meglio di sé e a offrire pezzi estremamente validi e incisivi; anche il resto però non è totalmente da scartare, servono parecchi ascolti ma alla fine alcune trovate di questo Lanegan elettronico convincono, seppur non a fondo.
Insomma, Mark Lanegan non si è perso, non è diventato un gregario e non punta a finire la carriera svendendosi tra collaborazioni varie; forse semplicemente, a differenza degli altri, necessita di più tempo per lavorare a qualcosa di nuovo ma quando torna, non delude mai i vecchi amici.
11/02/2012