Presupposti chiari, conclusione ancora più chiara: scavalcare la vena intellettuale e un po' errabonda che aveva limitato, se non frenato, le avventurose evoluzioni dello scorso album, e puntare ad un'alchimia concisa e diretta, ma non per questo meno avvincente. In un certo senso, i sei brani di “Smalhans” (tutti nominati a partire da pietanze tipiche della terra dei fiordi) mostrano un Lindstrøm che, se non gioca a spiazzare, muove le fila della sua musica con l'elegante accortezza di un marionettista. Il che, per uno sulla piazza da dieci anni buoni, è un complimento non da poco.
La space-disco, nei suoi codici e nel suo lessico, è infatti soltanto il punto di partenza, la leva su cui agire per muovere un sistema intero di coordinate sonore e non. E così, già l'iniziale “Rà-àkõ-st” è un eloquente affresco di quanto ci aspetta in questi trentaquattro minuti scarsi: nucleo melodico lanciatissimo e prorompente, un senso della progressione dai risvolti quasi bolero, impulsi galattici persi nella polvere della tempo e del suono. Il tutto, senza mai perdere di vista la chiarezza, la limpidezza dei groove e dei crescendo, cesellati con semplicità e gusto sopraffino.
Ed è in questa assoluta linearità dei brani, nel loro svilupparsi senza imboccare troppi percorsi paralleli, che il progetto confessa tutta la forza con cui è stato plasmato. Una linearità che nel suo dipanarsi acquista la forza della confidenza, senza per questo impantanarsi nel confortevole rifugio della conformità. Ecco come i Daft Punk di “Harder, Better, Faster, Stronger”, presi dal loro languido sognare in chiave house ( e di inserti house il Nostro ne sparge a profusione per tutto il disco), mostrano in “Vōs-sākō-rv” di poter essere riletti con la necessaria leggerezza in un contesto vivido e pungente, tutt'altro che caricaturale nell'espressione.
Con un modo di fare affine nelle intenzioni, l'epica moroderiana ravviva e infiamma lunghe disquisizioni astrali come “Vā-flę-r” e “Ęg-gęd-ōsis”, brulicanti di quel fermento e di quel nervosismo che servono a spazzare via eventuali sentori di lungaggini in arrivo. Sono però dissertazioni che osservano il cielo da una prospettiva esterna, che ne descrivono i movimenti da un'ottica terrena, quasi come se il producer avesse staccato un pezzo di universo e lo avesse scaraventato in mezzo alla pista da ballo.
Perché l'obiettivo finale, dopotutto, è proprio quello: puntare al dancefloor, a far muovere (e smuovere) le gambe della vasta platea dei club, piuttosto che rinchiudersi, ancora una volta, nella sua piccola navicella spaziale e vagare tra le stelle. E con l'impeccabile intervento in fase di mixing di Todd Terje, il nome nuovo in una scena elettronica norvegese che non smette di coltivare virgulti, l'obiettivo si può dire raggiunto a tutti gli effetti. Un carosello divertito ancor prima che divertente, un torrente di cromie e percezioni in cui finalmente far confluire tutta la propria vocazione per un suono che sappia essere elaborato e coinvolgente al tempo stesso.
Non si può parlare di un capolavoro (il suo personale lo ha già registrato quattro anni orsono), ma è la constatazione di come i sintetizzatori e i loop del “magro Hans” continuino a donare attimi di genuino rapimento. Quasi quasi, viene voglia di assaggiarle, queste vivande locali.
(28/11/2012)