Catch a tiger by the toe
and when it bites you, don't let go
You bite it back so it knows
that you're wild and you're born on a tightrope
Presentare un disco nuovo usando termini come reboot e shift lascia intendere che si sia giunti al traguardo dopo aver affrontato una rivoluzione, o giù di lì. Questo, in soldoni, il senso della nota stampa per il lancio del quinto album dei Man Man, funambolica compagine di Philadelphia che rivela oggi di aver effettivamente subito una drastica riorganizzazione interna. Liquidato il tuttofare Billy “Chang Wang” Dufala e retrocesso a semplice figurante il tastierista Jamey “T. Moth” Robinson, il leader incontrastato Ryan “Honus Honus” Kattner ha optato per una trasformazione evolutiva che ha fatto della sua band un duo aperto ai contributi esterni, con un coinvolgimento nei processi creativi molto più significativo per il batterista e braccio destro Chris “Pow Pow” Powell, e relativa contrazione del proprio impegno a tutto vantaggio del progetto collaterale Mister Heavenly, supergruppo condiviso con Nicholas Thorburn degli Islands e Joe Plummer dei Modest Mouse. Che si tratti di un processo di irreversibile snaturamento per un gruppo che come pochi altri ha saputo incarnare la celebrazione giubilante della miglior weirdness americana, l’elogio sperticato dell’art rock più eclettico ma anche di una vitalità dionisiaca impossibile da mediare, capace di animare il dark cabaret con attitudine punk e aperta all’abbraccio sincero con il fruitore (soprattutto dal vivo)? “On Oni Pond” chiarisce senza mezzi termini che no, nulla di così irrevocabile è davvero avvenuto, per quanto la formazione della Pennsylvania riveli di aver patito un certo disorientamento per il turbolento travaglio che l’ha interessata.
Neanche quaranta secondi di compassata marcetta a mo’ d’introduzione e rieccolo, il carnevale sbalestrato dei Man Man, in un synth-pop da battaglia che rispolvera tutti gli ingredienti a marchio DOC del collettivo statunitense (interpretazione ampiamente sopra le righe, sbaffi formidabili delle tastiere, refrain killer) e che qualche minuto dopo è riproposto in maniera ancor più frivola (“Loot My Body”) – con buona dose di ammiccamenti e inediti richiami anni ’80 che nemmeno dispiacciono – o clonato in un’altra simpatica spacconata funky (“Pyramids”). Il tono smaccatamente ludico resta insomma una conferma di rilievo, come quell’arrembante verve da guasconi in vena di smargiassate di grana grossa. Tutto già sentito ma sempre divertente e contagioso, da una combriccola di validi artigiani che osa un tantino meno che in passato e sembra aver dimenticato in un cassetto i santini di Waits, di Zappa e Captain Beefheart, ma non accenna a tirarsi indietro quando occorre dimostrare tutta la propria perizia circense. Più epidermici che mai ma anche precisi come macchine e solidi nel loro compendio easy-listening, i nuovi Man Man. L’unica rimostranza che si può lecitamente rivolgere loro riguarda gli sconfinamenti sempre più marcati in territori pop (o trash-pop, nel caso di “King Shiv”), seppur senza malizie o artifici ipocriti che non gli appartengano. Pur rimanendo una realtà estremamente vitale e creativa, la creatura del titanico Kattner da l’impressione di sacrificare una quota non trascurabile del proprio mordente a fronte di un raziocinio in crescita. In qualche caso il saldo rischia di risultare negativo, un po’ di noia va messa in conto e nelle battute conclusive gli sbadigli non sono più così episodici, dettaglio non certo di poco conto per una band cui mai nelle precedenti occasioni si era potuta accostare, anche solo en passant, l’etichetta “tediosa”. Qui capita ad esempio con “Fangs”, dove tribalismi non proprio avvincenti mascherano qualche fugace autocitazione (pare di risentire l’effervescente “Dark Arts”) e la nuova veste finisce per risultare troppo farraginosa.
La genuina assenza di snobismi, quel non prendersi mai veramente sul serio, vale comunque il riscatto. Per quanto si siano ammorbiditi e non poco rispetto agli esordi aspri e scapigliati nella scuderia Ace Fu, rimangono abili intrattenitori con una propria peculiarità ben riconoscibile e, tutto sommato, anche un pianeta a sé stante gioiosamente demodé e naif, nella sua indefessa strategia di contaminazione espressiva da condurre a tutto campo. Modellato come il predecessore dalle mani esperte di Mike Mogis, “On Oni Pond” è sicuramente, tra tutti i loro album, quello che meno si presti ad essere classificato come rock ma anche il più coeso in assoluto, novità pure positiva in un curriculum abituato a vivere di rendita grazie all’eccesso di discontinuità (non di rado penalizzanti). Non gli manca la giusta razione di pregevoli cineserie musicali, e il duo non intende certo sconfessare il proprio credo stilistico onnivoro e sovraccarico, kitsch ma con classe immutata. Nei momenti meno appassionanti viene spontaneo parlare di ordinaria amministrazione, per un collettivo che ha da sempre nella sua irriducibile natura pirotecnica il proprio miglior punto di forza. Anche in passaggi più equilibrati e persino contemplativi come “Sparks”, con la sua spiccata inclinazione nostalgica in chiave felicemente passatista (deliziose le reminescenze sixties, il cui candore riesce credibile), Kattner e Powell ribadiscono di essere musicisti entusiasti, il cui virtuosismo a tutto tondo sembra orientato a prendere il posto della follia elettrizzante e della cattiveria di un tempo. Per spezzare il ritmo e depurare l’ascolto, non esitano a riesumare un paio delle loro splendide miniballate malinconiche, appaltate in fede all’ukulele (“Deep Cover”) o al pianoforte (“Curtains”), tanto per andare sul sicuro. E’ inevitabile che, nell’ambito di un’operazione di restyling non troppo convincente e nondimeno meritevole di rispetto, i maggiori applausi si raccolgano quando si torna ad arrabattarsi con quel che riesce meglio. Il nuovo singolo “Head On” è in tal senso impareggiabile: una ricca profferta con le più stuzzicanti suggestioni della casa e le sue tipiche melodie infettive.
Per ritrovare Honus Honus e Pow Pow in tutta la loro spumeggiante ebbrezza tocca però aspettare il capitolo conclusivo, vero e proprio inno a un’esistenza da acrobati della musica, giocolieri nati e cresciuti tenendosi perennemente in equilibrio su una corda. E’ qui che la band, pur ridimensionata, ritrova scampoli della propria grandezza. Ed è questo il classico pezzo che i fan vorrebbero ricevere a ogni nuova occasione dai Man Man. Che in “On Oni Pond” hanno lungamente provato a smarcarsi dai vecchi, cari, vincolanti schemi, riuscendo però nell’impresa solo a metà.
09/10/2013