La storia inizia circa sul finire degli anni 70 quando un ragazzo di nome Ian Kevin, appassionato di poesia e di musica rock, ha l'occasione di mostrarsi al pubblico di Manchester con la sua band, che in realtà esiste già da un annetto o poco più, ma solo da quell'occasione prende il nome di Joy Division. La storia finisce nel maggio del 1980 quando il giovane Ian, ventiquattro anni appena, chiude il suo patto con il mondo impiccandosi nell'abitazione della natia Macclesfield, Cheshire, UK, inconsapevole di rappresentare da lì in avanti l'iconografia del post-punk, di aver gettato le fondamenta dell'intero movimento dark e d'incarnare il prototipo del dramma esistenziale post-moderno. Così, qualcuno potrebbe facilmente prendere spunto da questa storia per spiegare ai molti chi siano le Savages: una band interamente femminile, guidata dalla voce androgina di Jehnny Beth (all'anagrafe Camille Berthomier, quindi la metà femminile dei francesi John & Jehn), dalla chitarra corrosiva di Gemma Thompson e dalle ritmiche circolari del basso e della batteria rispettivamente nelle mani di Ayse Hassan e Fay Milton.
Non solo il suono però - presentato dalle quattro londinesi con un'aggressività istintuale e primitiva - avvicina la band ai quattro di Manchester; in verità nemmeno parzialmente le rimanderebbe ai protagonisti di cui sopra perchè un ascolto profondo rivela venature che pompano sangue diverso dalla sola tipologia Curtis. Ciò che rende appassionato e indissolubile il legame tra le compositrici di "Silence Yourself" e gli "sconfitti" di "Unknown Pleasures" è l'istinto, quel sentimento primordiale del compiere un'azione senza la necessità di elaborarla o di concepirla, un tacito ed inconscio accordo con se stessi nel fare ciò che viene di fare. E in effetti le Savages - con questo lavoro d'esordio prodotto da John Best (Sigur Rós) - non vogliono recapitarci qualcosa di altro, che già non sia in nostro possesso; le Savages pretendono di trasmettere l'unione tra la fisicità strumentale e la cruda emotività delle parole, prendendo a schiaffi i sentimentalismi scontati e suggerendo l'opportunità di starsene zitti, una volta ogni tanto.
"Shut Up", l'incipit del disco, comincia in questo modo: un estratto del film "Opening Night" di John Cassavetes, il dramma di un'attrice di Broadway che, dopo la testimonianza della morte di un fan, vive l'instabile equilibrio tra la vita e la morte, l'apice di carriera e le bassezze del declino; il plettrato del basso, caro al movimento post-punk, introduce una chitarra palm muted che distende i nervi, permettendo alla frontman pettinata alla Sinead O'Connor degli esordi di muoversi a semicerchio, da sinistra verso destra, distribuendo dalle mani invece che denari pistolettate caricate a grida, nella paradossale richiesta di silenzio. Le escoriazioni non tardano a mostrarsi con la seguente "I Am Here", un inno dark quiet & loud, con la voce della Beth a metà tra Brian Molko e Kate Bush, ritornelli da accelerate frenetiche che precedono brusche frenate chitarristiche, con sensibile odore di bruciato nell'aria. Il tiro non cessa fino alla conclusione di "City's Full", con colori da "casa in costruzione", Bauhaus in bianco e nero dalle velocità contemporanee. Il respiro torna con "Strife", che allenta, si fa per dire, la morsa delle quattro: BPM inferiori, chitarre farcite di overdrive acidi e lotte primitive tra basso e batteria, con la Beth ad arbitrare il combattimento. E ancora più giù, nelle tenebrose atmosfere della coda "Waiting For A Sign", giunge l'altra comunanza vocale della Beth, con Siouxsie Sioux dei Siouxsie and The Banshees, principalmente quelli del primo "The Scream"; le profondità dell'inno spirituale invocato ad alta voce, accompagnato dalle chitarre della Thompson, squarciano questa fragile tela dark, in attesa del simbolo, il segno tanto ricercato che si manifesta nella strumentale "Dead Nature": ticchettii e rintocchi, tuoni e campane a rappresentare la teatralità di un mondo in decomposizione.
Il primo singolo estratto, "She Will", è una buca commerciale in cui è facile inciampare accusando storte dolorose; la somiglianza del riff iniziale con "Love Will Tear Us Apart" è palese, nonostante le cavalcate sonore aprano a viatici più vicini al metal di inizio anni 80 (Iron Maiden, Venom), ricordando per certi versi il thrash dei Metallica di "Kill'em All" nella successiva "No Face", una dichiarazione diretta della mancanza d'identità, bacchettata sonoramente dalle note di richiamo di un basso severo e polemico. Siamo sulla via del tramonto, dove emergono le emozioni costipate della Beth: in "Husbands", isterica scivolata a piedi uniti contro la violenza domestica e non, e in "Marshall Dear", opaca e ruvida gemma di polistrumentismo che chiude il lavoro; le note di pianoforte sono lacrime che cadono grevi s'un tappeto di bassi e le spazzole cercano di ripulire la tristezza intrisa nel tessuto: un sax è testimone dell'accaduto, dice la sua a riguardo e saluta l'ascoltatore lasciandolo nel limbo dell'inquietudine e della malinconia, un po' come accadeva coi Morphine di "Cure For Pain".
Le Savages sono donne che vogliono fare le donne.
Portatrici di un femminismo coscientemente femminile, non giocano a fare i maschi agli strumenti, rimanendo fedeli alla sensibilità e alla forza che le contraddistingue. "Silence Yourself" è un disco muscolare e diretto, istintivo come si descriveva, che mozza il fiato come un pugno nella bocca dello stomaco, ma che in alcuni momenti accarezza con delicatezza le nostre teste, come a voler mostrare che una botta, seppur violenta, è necessaria per apprezzare il mondo che ci circonda, nitido, diretto, esente da quelle falsità strumentali che conducono invece alla Violenza vera, quella con la V maiuscola.
01/05/2013