Le protezioni importanti le ha sempre potute millantare Stephen Black, in arte Sweet Baboo. Nulla di stratosferico, intendiamoci, eppure abbastanza per venire accolto presto nella scena indipendente del suo paese come un piccolo personaggio di culto. Vantare una coppia di padrini del calibro di Euros Childs e Gruff Rhys non è da tutti, anche negli sperduti paeselli del Galles settentrionale, e se a questo aggiungiamo l’intensa gavetta spesa sui più importanti palchi festivalieri britannici (e non solo) dovremmo avere il quadro di una giovane promessa pronta da tempo per il grande salto. Che non si è tuttavia ancora concretizzato fuori dei ristretti confini nazionali, anche se uno spiraglio di luce comincia a intravvedersi adesso che è uscito il suo quarto LP in appena cinque anni, “Ships”. Il sogno sarebbe quello di costruirsi una visibilità pari a quella della sua grande amica Cate Le Bon, che pure ha beneficiato di sponsorizzazioni influenti negli ultimi tempi ma non ha mancato di ospitarlo nel suo recente “Mug Museum”. La rinnovata collaborazione con gli Slow Club, la partnership con Childs negli (oggettivamente pessimi) Short & Curlies e i tour al servizio di Johnny Flynn e degli esuberanti Islet sono ulteriori tasselli di una voglia di emergere comunque lodevole.
Come l’inaugurale singolo “If I Died” lascia intendere, anche in questo concept album dedicato al mare il tono è quello spensierato e gentile di tanto pop da cameretta anni 90 e successivo (tipo It’s Jo & Danny o Mockinbird, Wish Me Luck, per chi li ricordasse), le inflessioni melodiche riportano al primo Stuart Murdoch (la cui band è evocata con prepotenza a ogni accenno dei fiati), mentre le decorazioni elettroniche da videogame ricordano l’euro-pop iperglicemico degli spagnoli La Casa Azul. Nell’insieme una proposta lieve e non certo originale, ma deliziosamente strampalata. Eleganza e ricercatezza sono a più riprese suggerite ma sconfessate con inesorabile puntualità dall’impronta naïf di un interprete acerbo e nondimeno talentuoso, tradito più che altro dal proprio entusiasmo. Il suo indie-pop imbastardito non può che risultare pertanto un tantino chiassoso, ridondante, incline agli spropositi bandistici e a qualche soluzione pacchiana di troppo, come quando tra le striscianti suggestioni dell’elusiva “Let’s Go Swimming Wild” non si rinuncia a caramellare il refrain, vanificando in buona parte una ciondolante melodiosità à-la Zac Pennington.
La componente ludica stralunata si impone come indirizzo espressivo prediletto per il gallese, che occasionalmente gioca anche con vaghe seduzioni da primi Coldplay, giusto come posa scherzosa. La tendenza alla caricatura, il bozzettismo e il macchinoso assemblaggio stilistico restano in ogni caso peccati veniali e, pur con tutti i suoi limiti, l’arte di Black conserva un candore ingenuo che nei frangenti migliori sa essere davvero contagioso. Dolcemente ondivago grazie al suo cantato imperfetto, da romantico demodé che abbia alzato troppo il gomito, Sweet Baboo conquista con quel tocco british irrimediabilmente fuori moda, aggrappandosi al calore delle trombe come a un’irrinunciabile coperta di Linus. Arrembante, fanciullesco, polveroso, alla stregua di un impossibile Wayne Coyne gallese e squattrinato di sessant’anni fa (“Build You a Butterfly”), risplende nei panni del falso dilettante. In realtà la sua scrittura è assai meno sprovveduta di quanto potrebbe sembrare e, prescindendo dal gusto per la saturazione di ogni vuoto o silenzio, rimane il marchio di un autore a suo modo raffinato, intrepido, indubbiamente interessante.
Nel pastiche di “Ships” trova spazio anche il consumato dandy vagheggino, un Neil Hannon screditato dalla cronica, beata inconcludenza del giovane James Milne, arruffato magari ma intrigante (“8 Bit Monsters”). Ha le idee ben chiare Stephen, e solo di rado pare avvicinare i cliché del mentore e mecenate Euros, per giunta nella sua variante più classicista e meno psichedelica: “You Are a Wave” è uno dei pochi casi, a mezza costa tra scimmiottatura bonaria e affettuoso omaggio. In “The Sea Life Is The Life For Me” si intuiscono invece i Gorky’s Zygotic Mynci delle prime incantevoli prove. Siamo dalle parti della spiaggia di Barafundle Bay, in una malinconica fotografia dai colori ormai deteriorati in fantasiose tonalità acidule. Poco oltre, nella dedica conclusiva alla sodale Cate, Black opta per uno squillante jangle-pop, sposando le inflessioni zuccherine del Tim De Laughter più fiabesco e ampolloso con risultati discreti. Sono le ultime luci di un disco abbastanza fuori catalogo, sfilacciato e amabilmente alla deriva, cui guardare con sincera curiosità e simpatia, senza pretese spropositate.
E’ nella prospettiva di queste acque benevole e policrome che le undici barchette di Sweet Baboo navigano al meglio.
06/01/2014