Non hanno perso tempo, i TOY. D'altronde già l'anno scorso, ad una nostra domanda rivelavano di essere già al lavoro su nuovi progetti, compreso il seguito di quello straordinario esordio, che riuscì a guadagnarsi le grazie di parecchi appassionati. E quindi, a seguito di una lunga tournée in giro per il mondo (talvolta ad apertura di act di grosso calibro), arriva “Join The Dots”, anticipato da un singolo omonimo che ha letteralmente messo l'acquolina in bocca.
Unire i punti, insomma. E noi li uniamo questi punti, curiosi di conoscere quale immagine ne verrà fuori. Quanto ne risulta mostra una formazione che, al netto di ogni altro impegno, ha trovato il tempo e l'ispirazione necessari a ribadire le qualità di un simile debutto: nell'ora abbondante di durata del disco, ciò che ha reso grande la musica del quintetto si ripresenta con slancio e intensità rinnovati, quando non rafforzati dall'esperienza accumulata. Una conferma che vale più di mille sorprese.
Chiunque abbia amato il peculiare sound della band, quella (per dirla in soldoni) ribollente combinazione di umori shoegaze, ritmiche kraut e attitudine melodica fieramente brit, non faticherà a ritrovarne gli elementi pure in questo nuovo lavoro. Il piglio scazzato della voce di Tom Dougall, il drumming al metronomo di Charlie Salvidge, i muri di chitarra di Dominic O'Dair, il basso ardente di Maxim Barron, la tastiera fantasiosa di Alejandra Diez: non manca davvero nulla alla collaudata formula espressiva del quintetto, già alla prima forte di una maturità invidiabile.
Piuttosto che il cosa, è semmai il come qui a essere di rilievo: con il mood volto a una più marcata rilassatezza generale, e un'inclinazione pop a trapelare con maggiore decisione, sono decisamente minori le concessioni a poderose fughe in salsa motorik. Poco male comunque, anche a costo di non ricevere i sussulti di una “Kopter”, ci pensano brani di analogo spessore a rinfrescare il culto: già l'avvio, consegnato nelle mani della lunga “Conductor”, parla di un gruppo ancora capace di stupire, pur nell'ambito di territori già battuti. Così la batteria si innesta in un tracciato spacey dalla forte impronta Hawkwind, nuovo capitolo nella saga più epica del quintetto; di rimando, i dieci minuti scarsi della conclusiva “Fall Out Of Love” portano le ambizioni della band a sfociare con successo nei lidi della psichedelia (con il contributo della Diez, sempre più consapevole dei propri mezzi, a diventare ancora più decisivo nell'economia del disco intero), senza nulla togliere alle sfumature e alle caratteristiche proprie della band.
Tralasciando i tre brani più lunghi del disco (la title track, sorretta dal tiro di basso di Barron, a completare il terzetto), queste stesse caratteristiche, vengono esaltate specialmente nei brani più brevi e diretti del lotto, maggiormente propensi ad una sontuosa dimensione pop. Già s'era fatto accenno al concetto in precedenza, ma occorre dire che a questo giro di melodie a presa rapida ve n'è in buona quantità. Dalla chitarra jangly a tutto spiano di “You Won't Be The Same”, alla “sontuosità” espressiva di una “As We Turn”, approdando infine a quella “Endlessly”, che con quel refrain varrebbe da sola l'intero prezzo del biglietto, i TOY piazzano una sequenza di canzoni a cui non manca davvero niente per diventare le nuove “My Heart Skips A Beat” e “Motoring”.
Senza grandi proclami, senza enormi e inutili stravolgimenti, i cinque si riconfermano band protagonista dell'attuale scena indipendente britannica. Con buona pace dei tanti detrattori e di chi continua a ritenerli cloni degli Horrors...
06/12/2013