Strappa un sorriso amaro leggere comunicati stampa e recensioni che parlano di “Temari” come del secondo album della band gallese Colorama. La loro brillante carriera discografica è infatti già ricca di ben quattro album e un mini (“Magic Lantern Show”) che candidano senza alcuna riserva Carwyn Ellis, Luca Guernieri, David Page e Andrea Garbo (ex-Jennifer Gentle) come il miglior ensemble pop dai tempi dei Pulp.
Estranei al flusso revival, mai coinvolti dalla febbre dell’hype mordi e fuggi, i Colorama hanno dato forma a piccoli capolavori di pop (“Box”) o di folk ricco di candore (“Llyfr Lliwio-Colouring Book”) rivoltando la psichedelia (“Cookie Zoo”) e contaminando la loro scrittura con residui stilistici eterogenei (“Good Music”).
Artigiano raffinato attento ad ogni dettaglio delle sue canzoni, Carwyn Ellis è l’uomo al quale Edwyn Collins ha affidato gli arrangiamenti e le idee per le sue canzoni dai tempi di “Home Again”, il turnista che Chrissie Hynde voleva al seguito della sua tournée, l’elemento-chiave che Noel Gallagher bramava inserire nei suoi Oasis, ma soprattutto un onnivoro curioso di elementi sonori e strumenti musicali di rara fattura.
Già dalla copertina viene fuori l’attitudine creativa e curiosa del gallese: i Temari sono dei vecchi giocattoli giapponesi che nella tradizione del Sol Levante sono legati al buon auspicio e alla fortuna, sfere fatte a mano e ricche di particolari come la musica dei Colorama.
Che Beatles e Burt Bacharach siano i due cardini essenziali della scrittura di Carwyn Ellis non è un mistero, ed è proprio questa attitudine alla variazione cromatica e lirica (oserei dire alla Steely Dan) l’elemento che li differenzia dalle band pop che seguono un percorso stilistico a ripetizione (che spesso li identifica facilmente come prodotto da classificare e commerciare).
In “Temari” l’autore affronta con più convinzione anche il versante jazz-oriented della sua scrittura pop, rivalutando il pianoforte come centro creativo del suo lirismo: sono ricche di soul e rhythm and blues le armonie di “Me & My Sister” che scivolano su un groove degno del miglior Stevie Wonder, e danno poi il là alla ipnotica “Time Folk” che sembra partorita dai Portishead diretti da Nicola Piovani.
Il piano è lo strumento guida anche di quel gioiellino che corrisponde al titolo di “Love Entropy”: un fluire armonico ricco di fantasiose intuizioni sonore che ospitano l’ukulin, uno strumento che ibrida l’ukelele e il violino; un brano irresistibile che incita al repeat ossessivo.
"Temari" è un album ricco di potenziali instant classic grazie a una serie di melodie senza tempo (“I Can't Give You More Than Everything”), irresistibili refrain da trip psichedelico (“Paraglide”) o possibili colonne sonore di horror movie anni 70 (il romanticismo decadente di “Waiting Game” sarebbe infatti perfetto in un vecchio film di Dario Argento), ma mai prevedibili o banali come molte delle proposte alternative dei gruppi pop più blasonati - valga come esempio su tutti la costruzione sonora di “Raylene”, che mette in linea Angelo Badalamenti, Bark Psychosis e Flaming Lips senza perder di vista le logiche di una pop song.
Credo che sia chiaro che l’ultimo album dei Colorama è un ossimoro, dove la leggerezza del pop e l’architettura più complessa della composizione si incontrano, rinnovando i fasti di un passato sepolto dall’industrializzazione della fantasia, ed è così che il pop di “Don’t Be Mean” si agita tra ombre e luci, e poco dopo l’ingenuita si impossessa dell’elettronica in “Super Yoshida", senza dimenticarsi di attraversare indenne il mix di acid-rock e soul-funky di “Thing”, e trasformare in un banale pop anni 50 una struttura lirica altresì raffinata come quella di “Too Much Data”.
“Temari” è il luogo dove il pop ritorna a essere una costruzione semplice e complessa, futile e profonda, banale e meditativa, popolare ma non mainstream, tutto quello che ogni persona dotata di buon gusto dovrebbe chiedere alla musica, un trionfo.
13/10/2014