Più country (per quanto decisamente poco propenso alle facilonerie pop da midstream a stelle e strisce, come anche al registro più classico di signore dell'Americana quali Gillian Welch e Lucinda Williams) che classicamente folk, più figlio di grandi slanci di suggestione che di autentica ispirazione nella scrittura, “Native State”, ideato e registrato al rientro ad Austin, dopo un'estesa permanenza newyorkese, è lavoro profondamente influenzato dal ritorno a una quotidianità bramata, ad una routine in grado di mettere nuova luce sulle piccole cose, su uno spazio circostante vissuto con maggiore consapevolezza e intensità.
Ne deriva un lavoro di confronto, di analisi del proprio io, un'esigenza di raccontare e raccontarsi che prescinde da modelli compositivi conclamati, operando con strutture sciolte, difficilmente inquadrabili in schemi fissi. Al che la voce così caratterizzante della Williamson, così capricciosa nell'enfatizzare le vocali in chiusura, risponde con convinto entusiasmo, trovandosi smarcata da ogni impedimento che ne freni la corsa alla narrazione, l'aspetto propriamente lirico. Un tentativo ammirevole, che reca però con sé anche i segni della resa: su tessiture strumentali fini ma piacevolmente intricate, incentrate su pochissimi strumenti (essenzialmente dobro e banjo), le impressioni di Jess scorrono via senza particolare grinta, faticando a lasciare il segno anche laddove la possibilità sarebbe davvero a portata di mano (la title track e il suo tiro très 16 Horsepower, la fisicità più pronunciata di “You Can Have Heaven On Earth”).
Manca insomma il sostegno di un canovaccio vincente, di un tracciato su cui poter piantare saldamente le fondamenta delle proprie interpretazioni. Anche così, resta comunque un'opera prima tutt'altro che da bocciare, merito di un'estetica e di un coraggio stilistico tutt'altro che prescindibili. I segni di una futura maturazione si scorgono tutti, in ogni caso: la strada è stata scelta, a Jess tocca percorrerla fino in fondo.
(05/03/2014)