Sarebbe interessante capire quale misteriosa patologia artistica abbia colpito Midge Ure ormai trent’anni orsono. E dire che tutto sembrava andare per il meglio: nell’aprile del 1984, con “Lament”, i suoi Ultravox segnarono un ulteriore, convincente, punto in chiave synth-rock nel processo di emancipazione dai romanticismi sintetici di “Vienna”, poi a dicembre assunse in prima persona la guida artistica del benemerito progetto Band Aid, persino come co-autore dell’azzeccata (specie considerandone le finalità) “Do They Know It’s Christmas?”.
Forse innescato dalla sovraesposizione mediatica che ne è seguita, culminata con il Live Aid nel luglio dell’anno seguente, da quel momento Midge ha sempre fatto scelte che nella migliore delle ipotesi han generato più di un dubbio, ma che nella peggiore (o meglio: nelle peggiori) hanno gettato nello sconforto molti estimatori della prima ora.
Dopo il discreto debutto solista con il patinato “The Gift” (1985), abbiamo assistito alla sciagurata folgorazione simil-folk di "U-Vox", che difatti ha sancito la fine del gruppo nella sua formazione “viennese” (ma Warren Cann si era già defilato dopo "Lament"), prima dell’insipida reunion al gran completo di due anni fa. Folgorazione che, a dosi variabili, si è trasformata nella seduzione prevalente dei seguenti dischi in solitaria, portando in dotazione una super-hit al miele d’acacia ("Breathe"), qualche brano piacevole qua e là e nemmeno in tutti i lavori, persino un album di cover che era difficile fare peggio, ma soprattutto dei fragorosi sbadigli, quando non sinceri imbarazzi: duole constatare che la partita del nuovo “Fragile” si gioca ancora – ahinoi - su questi ultimi due punti.
Pur lasciandosi alle spalle le istanze folk di cui si è già scritto (cosa che, a onor del vero, era già accaduta nel 2000, ai tempi del dimenticabile “Move Me”), e orientandosi verso sonorità pop elettroniche, il buon Midge non riesce nell’intento di liberare le sue canzoni dal pernicioso effetto cariogeno con cui abbiamo, nostro malgrado, familiarizzato.
Più che non riuscirci, è lecito pensare che non ci abbia nemmeno provato, a giudicare dall’aura artatamente intimista che permea le composizioni, connotate da note che si allungano su spartiti interminabili alla spasmodica ricerca della melodia perduta. Anche laddove vi sono buoni spunti, come nelle innocue “I Survived” o “Let It Rise”, a mancare all'appello è l'intenzione, che nel caso di Ure andrebbe cercata in una voce che nella stagione ultravoxiana riempiva rotonda e potente anche i pezzi minori elevandone il rango, mentre oggi collassa flebile e sussurrata, finendo con lo spegnere anche le migliori intuizioni melodiche.
“Are We Connected?”, pur non trascendentale, lascia intravvedere qualche segnale incoraggiante per via di un bell'arrangiamento e di un buon brio, ma i problemi si fanno seri con “Become”, marcetta con velleità dance che sconta un certo effetto karaoke, “Wire And Wood”, strumentale buono per le compilation relax da cesto dell'ipermercato, con “Brigdes”, altro strumentale colmo di un'indolente pretenziosità che si propaga in “Fragile”, molto più debole che fragile, appunto.
Le cose vanno un po' meglio con “Dark, Dark Night”, in cui si completa in chiave musicale il processo fisiognomico di “separati dalla nascita, ora ritrovatisi” con Moby, che in effetti è ospite nel brano, e “For All You Know” che sarebbe stato un bel pezzo, se fosse stato eseguito un'ottava sopra (quella che è sparita dalle corde di Midge?) e con bpm più sostenuti, ma che così restituisce il sapore agro dell'occasione perduta.
Anche se il quadro fornito non è dei più suggestivi, è importante rimarcare come, nonostante tutto, sia impossibile non voler bene al frontman scozzese più bersagliato di sempre: chi vorrà mettere sullo stesso piano la zoppicante carriera solista con quanto prodotto dai suoi Ultravox negli anni 80, sappia che è fuori strada. Si tratta di un'alchimia perduta pian piano nel tempo, che non può intaccare minimamente quella pagina così importante per il rock britannico.
(04/08/2014)