Punta dell'iceberg di quest'operazione - dopo la bella collaborazione con Asmus Tietchens e la ristampa del cult “Other Places” co-firmato con Mani Neumeier e Jürgen Engler - è “Snowghost Pieces”, gioiello nuovo di zecca che riunisce al magnate berlinese altri due desaparecidos di lungo corso. Di Tim Story non avevamo notizie dal 2008, quando aveva dato alle stampe assieme all'amico Dwight Ashley e (coincidenza fortuita) allo stesso Roedelius il mediocre “Errata” - ormai lontano dai fasti che lo avevano consacrato nei due decenni precedenti come il più sensibile e originale fra i corrieri americani dell'ambient music. Per quel che riguarda Jon Leidecker, per tutti Wobbly, si deve risalire addirittura al 2002 e al buon “Wild Why” prima di ritrovarlo esclusivamente come partner in pianta stabile degli amici Matmos e Vicki Bennet aka People Like Us.
È dunque un trio d'eccezione alla ricerca di rilancio quello che condivide la propria arte su un disco insolitamente atteso e in grado di saziare i palati più esigenti nella maniera meno scontata possibile. “Snowghost Pieces” è una raccolta di incisioni spettrali eseguite da un'orchestra di macchine analogiche, assistite esclusivamente da un pianoforte e da qualche arco sintetico e pronte ad affrontare i postumi più aspri del kraut-rock a suon di affondi dub e screziature free-impro. La mano ferma e sapiente di Moebius è faicle da individuare sul tappeto livido di “Flathead”, sul quale Story infila silenziosamente una delle sue inconfondibili costruzioni melodiche. Leidecker si concentra invece sul guidare la stesura dei complessi arrangiamenti: sua la paternità delle decostruzioni aliene che deformano magistralmente la fusion di “Fracture Fuss”, e suo il rimpasto a suon di sample e svolazzi atonali che in “Treadmill” scombina l'equilibrio ambientale di piano e synth.
È un'arte complessa e a conti fatti piuttosto ostica da digerire, che concede a sé stessa pochi momenti di tregua, individuabili nell'odissea space (forse un po' prevedibile) di “Cut Bank”, nel bel tappeto modulare di “Yaak”, nella magnifica danza palestiniana di “Olara”, nel buco nero di “Whelmed” e nel divertissement di “Cliff Doze”, dove l'istrionismo sfiora da vicino la bizzarria. Un'arte ambiziosa e ricercata, come dimostrato dai dieci minuti di conati psichedelici di “Vex” e dalla chiusura atonale di “Defenestrate”, un congedo improvviso e secco come anticipato dal titolo stesso.
Non è un disco per chi ama le sfumature né per chi abbia adorato i Cluster meno ostici o il Tim Story di cui tanto sentiamo la mancanza. Quel che troviamo qui sono tre musicisti che sfidano apertamente le barriere sonore da loro stessi costruite e formalizzate, superandole con successo.
(04/09/2014)