L'edonismo discografico ha bisogno di album come questi per essere ridimensionato e messo in discussione: l'abbandono della musica militante è una delle ragioni dello scollamento tra pubblico e musicisti, fattore che ha ridotto la musica a puro prodotto con una fuga non solo di consumo, ma anche di modello ideologico.
Franklin James Fisher, Ryan Mahan e Lee Tesche con il loro esordio "Algiers", che giunge dopo sei anni di attività, rimettono indietro l'orologio della storia del rock, non per divertirsi con sonorità perdute o filosofie esoteriche, ma per strappare il velo d'indolenza che fa annaspare la musica rock, rimettendo in gioco quel fervore anticapitalista e rivoluzionario che dal blues all'avanguardia, passando per l'elettronica e il pop, è stato l'elemento purificante di un arte sempre più incline al narcisismo.
Il situazionismo ritorna a essere il motore culturale delle logiche della sinistra, non quella istituzionalizzata e affascinata dal totalitarismo. Il gospel e la musica di protesta ricontestualizzano il passato al presente, in un'era dove le ingiustizie economiche e sociali sono ancor più stridenti e dove la mano ostruente non è facilmente visibile.
La rivoluzione sonora degli Algiers riparte dalle radici del blues e della musica nera, ma si alimenta di tutte le variabili che hanno preservato nella storia le sue radici popolari.
È in questa visione a 360 gradi il vero fascino della musica degli Algiers, abile nel citare stili disparati con frammenti che messi insieme danno origine a un suono originale e ben definito.
Non si ha la sensazione che il trio abbia inciso questo album come primo tassello di una carriera, anzi il dubbio che questo disco possa non avere un seguito è quasi preminente durante l'ascolto. Le dieci tracce non aprono nessun dialogo o discorso, anzi lo chiudono, lo sigillano con quella rabbia che non sentivamo più dai tempi di MC5 e Public Enemy e con quel senso del dramma e di annichilimento umano che prima i Bad Seeds e poi i Suicide addomesticarono al gergo rock.
Prendiamo ad esempio "Black Eunuch": per un attimo sembra un soul anni 60, prima che il dub faccia tracimare tutto verso un'elettronica post-Suicide, o la tensione sonora di "Irony. Utility. Pretext." esemplare brano anti-pop dove il testo non lascia possibilità di compromessi.
Musicalmente "Algiers" rinnova il fragore del punk ma concedendosi al gospel che diviene un apocalittico groove dove innestare soul, industrial e cascate di synth.
Senza ambire al capolavoro l'album è un'esperienza sonora unica e travolgente nella sua autenticità. Franklin James Fisher canta come se Nick Cave fosse nato in Africa o come se PJ Harvey imitasse Nina Simone, trascinando anche l'insieme meno grintoso verso una catarsi purificatrice; in "Blood" agguanta perfino le grazie del pop soul, graffiandolo e scuotendolo come si fa con un bambino viziato.
Il battito di mani e cori gospel ("Remains") gli scampoli di blues post-atomica ("But She Was Not Flying"), le sonorità grezze prive di noise e avvolte da un clima claustrofobico ("Claudette"), le polluzioni elettroniche e industrial ("And When You Fall") e il passo falso della militante e incerta "Old Girl" sono un tutt'uno, un prendere o lasciare dove il risultato d'insieme è più corrosivo e importante di ognuno dei suoi frammenti.
A volte idiosincratico, oscuro, tribale, ipnotico, perfino delicato e poetico in maniera quasi convenzionale ("Games"), "Algiers" è un manifesto sonoro e ideologico dove Malcom X e Alejandro Jodorowsky si stringono la mano, un evento al quale non è necessario essere invitati per farne parte.
14/09/2015