Pensi al Giappone e ti vengono in mente subito i grattacieli, lo sfarzo tecnologico, l'inquinamento, il grigio. Dura trovare troppi segni d'umanità nell'architettura del Giappone che conosciamo, dura rimanere estranei ai luoghi comuni che da anni ci vengono propinati. La verità è che chi scrive in Giappone non c'è mai stato, ma preferisce sicuramente farselo raccontare da punti di vista diversi, per certi versi contrastanti con quello che è il pensar comune. Ultimamente, il Giappone ci ha regalato alcuni fra gli artisti ambient più sensibili, talentuosi e umani che si ricordino. Chihei Hatakeyama, di costoro, è uno dei capofila.
Questo suo nuovo lavoro per l'altrettanto straordinaria Room40 rappresenta indubbiamente uno dei vertici della sua arte ambientale, che ha da sempre fatto dell'immagine il suo strumento principale. Immagine intesa, però, nel senso più squisitamente tradizionale, come evocazione attraverso la musica: quasi un'antitesi al realismo elettroacustico che pervade le odierne traiettorie di ricerca, ma anche all'organico equilibrio che ha portato gli Illuha (c'è di mezzo il Giappone anche qui!) al trono della contemporaneità atmosferica. Hateyama sta agli antipodi, è uno che pesca diretto dal cuore e che nelle immagini cerca il ricordo, il sentimento, la percezione emotiva. Tutta sostanza, insomma.
La luna che riflette oltre le montagne, vale a dire la Natura nella sua più ampia accezione: eccolo il soggetto di questo suo lavoro. Descritto attraverso otto situazioni diverse, a partire dall'evocazione iniziale di “Prince Of The Sea”, che sembra guardare all'Erik Wøllo più rarefatto. In “A Narrow Path Of The Secret Forest” cala la notte e la luce della luna si erge a protagonista unica: droni densi e magniloquenti si sfiorano fino a intrecciarsi progressivamente, incrementando nel finale la forza d'impatto del nodo. Il contatto con l'ultimo Lawrence English è palese nel sound, sebbene al pathos meta-sacrale di quest'ultimo si sostituisca qui la suggestione delle immagini.
In “Broken Mirror” la notte diviene abbraccio caldo e accogliente: non c'è traccia di oscurità intesa come oppressione o claustrofobico timore. Il paesaggio notturno svela semmai la sua forza vitale, racchiusa nella sua essenza più profonda. E il finale di “End Of The Night” la mette tutta in evidenza nel passaggio notte-giorno, fra arpeggi e gocce elettroniche. La contemplazione bucolica per chitarra acustica e field recording di “A Bronze Pike” è l'unica eccezione alla regola, dove la vita animale si rivela attraverso il suono. Ma non è che una tecnica per mettere l'accento sull'essenza complessiva di una natura racchiusa nelle voci umane quanto nei cinguettii dei volatili.
“Mausoleum” e “Phantom Voice”, invece, rivelano l'esistenza (tutta umana) dell'inquietudine in assenza di luce: le basse frequenze e la scomparsa delle armonie incupiscono il soundscape, giocando con la fantasia dell'ascoltatore portato a immergersi nel buio allo stato puro. Ma non ci sono richiami sinistri, nessuna reale traccia di spettri e mausolei: i titoli suggeriscono, semmai, la direzione in cui l'immaginazione è condotta. “Journey To The Imaginary Paradise” fa lo stesso invertendo le parti, edificando una scalata fra tocchi lievi di chitarra e un monolite di armoniche semplicemente da brividi. La musica stessa è il paradiso immaginario.
Probabilmente il disco ambient dell'anno, assieme alla meraviglia firmata, su tutt'altre coordinate, da Alio Die e Lorenzo Montanà quest'inverno. Di sicuro una delle vette più alte raggiunte da un artista semplicemente straordinario.
20/05/2015