In ventanni di sciamanica carriera alle macchine si può dire che Matthew Herbert ci abbia abituati, in musica, letteralmente a tutto e al suo contrario. Nove anni già sono da quando consegnò quella che rimane ad oggi la sua opera più prossima al pop - e non a caso il suo parto dal richiamo più vasto - quello "Scale" che trascinava mente e corpo in un'orgia di sample, partiture orchestrali e finissime linee vocali di marca funk-soul, il tutto mentre tra le righe si profetizzava la fine del capitalismo, la guerra nucleare e il suicidio dell'umanità. Perché la peculiarità e il longevo fascino di Herbert in fondo sono proprio in questo servirsi delle estetiche di genere (servendosene peraltro puntualmente al meglio ipotizzabile) solo in quanto veicolo ad ampio raggio per trasmettere un messaggio ben preciso. Una volta completata la corrispondenza, è tempo di guardare altrove. Rifare un altro disco di beat carpiti a una liposuzione o droni forgiati dalle ossa di un maiale macellato significa voltarsi indietro, immortalarsi, diventare personaggio. Tutto quello che a Herbert non ha mai interessato.
Dopo un intenso decennio trascorso prevalentemente sotto il suo nome d'anagrafe, con cui ha messo a punto la trilogia "One" e l'ambizioso "The End Of Silence", l'inglese torna nuovamente solo come Herbert e presenta "The Shakes" come "un tentativo di sedurre l'ascoltatore di nuovo sul dancefloor". Il che non significa ovviamente adagiarsi sugli allori dell'autocitazionismo. Questa volta è il Matthew-padre a parlare: il disco vuole essere una riflessione intima sull'insicurezza generalizzata in cui tutti viviamo, dalle istanze macro-politiche alle tensioni sociali, offrendosi al tempo stesso come spazio di calore umano e dimesso sentimento.
A completare simbolicamente il quadro dell'opera, la consueta componente "concreta", a questo giro prodotta esclusivamente da oggetti acquistati tramite eBay, tra cui alcuni proiettili usati e cartucce d'artiglieria.
Nonostante tali premesse, però, chi s'aspetta un ideale seguito di "Scale" resterà invariabilmente deluso. "The Shakes", infatti, si svolge su toni nettamente più introspettivi e sommessi rispetto ai guizzi del predecessore, più asciutto nella forma e quasi cameristico nell'ambience.
Il punto di forza "pop" del lavoro va riconosciuto senza dubbio nella voce dell'ottimo Ade Omotayo, già al fianco di Amy Winehouse e Basement Jaxx, che arricchisce una buona metà delle tracce di un'impronta vigorosamente soul - su tutte, l'opener "Battle" e la concitata "Strong", quest'ultima costruita su un campionamento di proteste londinesi.
Più mediocri i contributi di Rahel Debebe-Dessalegne, che ricorda nei momenti migliori l'impareggiabile Dani Siciliano (qui grande e chiassosa assente), come nel soffice flusso melanconico su ottoni di "Middle", nei momenti meno brillanti invece una Leslie Feist alquanto imbolsita ("Warm" rasenta la stucchevolezza). Riuscito a pieni voti, invece, il duetto bandistico di "Stop", peraltro completato da un bel videoclip su relazioni e dipendenze.
In definitiva, "The Shakes" esaurisce il meglio di sé nella sua prima metà, indugiando nella seconda parte in soluzioni più sedute e autocompiaciute, come il pallido e ingiustificatamente prolisso techno-pop finale di "Peak".
Onesto e sentito, nonché, va da sé, magistralmente prodotto e arrangiato, "The Shakes" porta a casa tuttavia un risultato modesto, soprattutto se confrontato con la sequenza di capolavori che lo ha preceduto. Alla luce di una chiaroveggente attività pluriennale pressocché impeccabile, in ogni modo, un lusso che Herbert può concedersi a pieno diritto.
07/06/2015