Lo sciolto talento alle tecniche miste analogico-digitali di Adi Gelbart prosegue, dopo le due parti della colonna sonora di “Vermin” (2013), con “Preemptive Musical Offerings To Satisfy Our Future Masters”. Gelbart è qui ammirevole per come usa i tempi brevi nell’impacchettare con grazia sia il dono melodico quanto le sue tipiche invenzioncine assortite, mantenendo costante per ambedue una finta sciatteria che in realtà nasconde studio e cura.
Le marcette demenziali si confermano la sua specialità: “He Who Speaks Through Pyramids”, per rumori di cassa di supermercato e sax, poi puerile jam bebop, e “Harpsichord Automata”, ancor più follemente clownesca nell’uso a mitraglia della rhythmbox, “The Big Sleep” per big band e beat putrefatto, tutto sommerso da una cacofonia di lavatrice.
Irresistibili sono anche lo swing-noir guidato dal clavicembalo di “The Source”, il remix idiota di danze equatoriali di “Tsuburaya”, che poi gioca a fare il “tema e variazioni” della musica classica, e l’ancor più stordente e rimbecillita “The March Of The Thinking Boxes” (uno dei suoi apici).
La passione per la musica barocca sembra essere una tendenza sempre più affocata per il compositore. Toccate, fughe e controfughe, legato e rivoli di tastiere innervano così il battito Suicide in “Spacetime Reverie”, con organetto da spiaggia, l’iconoclastia clavicembalistica degli Art Bears con riverberi allucinati di tabla in “Leaves For Gamera”, e quella più drammatica, “Birth Of Alpha” (all’inizio una toccata quasi accademica, poi scardinata da clangori e fanfare di Broadway).
Nuovo laboratorio Residents-iano d’industrial giocattolo e una nuova, ancor più piena e scintillante, parata d’elettronica space-age che - come nel passato del compositore d’origini israelite, ma qui con maggior carica d’intrattenimento semiserio - ecciterebbe Nino Rota e Stan Kenton, farebbe l’orgoglio di Esquivel e Conlon Nancarrow, divertirebbe Bach e Scarlatti. Preceduto dal più leggerino singolo “Echoville” (2015) incluso anche nell’album.
30/01/2016