Davvero non riesco a capire molte cose. Ma andiamo per ordine. La prima è un fatto personale, non riesco a capire come il lettore della mia auto non si sia incenerito per la bellezza ustionante delle musiche e per il sovraccarico compulsivo degli ascolti del disco di Giorgio. Ma credo che la sua leggerezza, oltre a essere gradita allo stesso impianto, non risulterebbe nociva neanche contenesse uranio impoverito. La seconda cosa che ho difficoltà a capire è stata la spinta di più persone a scrivere una recensione, che è anche la mia prima su OndaRock. Probabilmente si è voluto ricreare quel lavoro minuzioso e corale che ha richiesto la realizzazione del disco. Infatti, come i precedenti lavori, anche questo, dopo la fase di scrittura con chitarra e voce, ha progressivamente cominciato a coinvolgere un considerevole numero di collaboratori, musicisti, arrangiatori il cui stesso lavoro è avvenuto in rete con la spedizione di file musicali che, di volta in volta, aggiungevano a ogni brano il pezzo mancante, facendo in modo che lievitasse verso la perfezione.
"Ogni mio disco", ha raccontato il musicista pugliese, "necessita di moltissimo tempo e pazienza. In quest'ultimo caso i brani sono stati registrati in parte al SudEstudio di Guagnano con Stefano Manca e poi finalizzati attraverso lo scambio di file provenienti da ogni parte del mondo: Inghilterra, Norvegia, America, Canada. I collaboratori virtuali sono stati numerosi ma è fuor di dubbio che il lavoro più prezioso sia stato offerto da Michael Andrews, Laetitia Sadier, Matiaz Tellez e dal contributo finale di Matilda Davoli che ha prodotto e mixato buona parte dei pezzi". Probabilmente questo procedimento ha fatto scattare da questa parte un altro desiderio inconscio: raccontare quello che avveniva tra gli ascoltatori in rete, impegnati anche noi come Giorgio a cercare la condivisione e il contributo del maggior numero di persone possibile. Volevamo elevare il nostro appassionato e quasi sinfonico passaparola alle vellutate e complesse armonie del disco. Emularne il sistema operativo. Inclusa la felicità di cui parla Giorgio quando dice che questo lavoro certosino di inviarsi i file e aspettare che ritornino "riserva una gioia infinita, perché quando ti arrivano le canzoni completate e le ascolti per la prima volta è una soddisfazione unica, ti ripaga di tutto la fatica fatta".
Deve essere più o meno quello che è capitato a un amico quando ha postato su Facebook la foto dell'apertura del pacchetto postale contenente il disco inviatogli di suo pugno da Giorgio: ha fissato quello che molti di noi si sono ritrovati a fare. Un rito che non era il frutto della solita campionatura dell'ufficio stampa della casa discografica né l'immateriale arrivo della cartolina musicale sulla mail. No, dietro quei pacchetti c'era l'impegno accurato dello stesso artista. Il passo ulteriore di un disco che dal suo concepimento alla sua distribuzione ha mantenuto lo stesso spirito prezioso, delicato, consapevole della fragile bellezza che stava passando di mano in mano. A molti è sembrato far parte di una catena i cui anelli andavano lucidati ad uno ad uno; e la cui brillantezza rispecchiava quel calore che il disco emana in ogni commento in rete. Un tam tam magnetico di persone che cercano di condividere un piacere, uno dei pochissimi, che sa essere insieme individuale e oggettivo. In effetti la bellezza di questo disco induce un'azione collettiva, virale, un telethon sentimentale. Sapete bene che quello che conta è il primo impatto che ci dà un album, da lì si capisce se c'è intesa, se è scattato in noi qualcosa di subliminale, se abbiamo sentito suoni che non esistono nel disco ma che si sono intrufolati nella nostra testa, se è in atto una suggestione di gruppo, se per caso abbiamo avvertito profumi che ci facevano ruzzolare in vecchie intermittenze del cuore. Se avevamo percepito la scia luminosa di quella serie di bagliori che ci assalivano quando prendevamo un disco in mano, sentivamo l'odore del vinile d'importazione e ci lasciavamo sommergere da quel primo ascolto come fosse il primo bacio. O il primo di tutto. Di quando la parola empatia non era ancora entrata nel vocabolario comune. Come quella prima volta che dopo aver strappato coi denti il cellophane ho inserito il cd nel lettore della macchina e l'ho ascoltato mentre attraversavo con un mucchio di pietre nello stomaco la campagna romana. Credo di non aver mai provato un senso di angoscia più catartico di quello. Il disco è bellissimo.
Potremmo fermarci qui. Ma c'è ancora bisogno di condividere questa bellezza, di trasmetterla perché in un mondo di strategie comunicative, di successi stabiliti a tavolino e di idoli virali preconfezionati c'è l'ennesimo elemento che stento a capire. E riguarda il caso misterioso di un musicista che si arrende nel non poter arrivare ai vertici che sogna e di essere sempre sul punto di ritirarsi da quella che sente come una competizione e non come un arricchimento. È per questo che Giorgio sembra accontentarsi di una fama modesta, gestibile, a sua misura, come se avesse paura di contaminare il suo talento o, peggio ancora, mostrarne i limiti. Giò ha ascoltato milioni di dischi che gli hanno acceso la passione per la musica, che gli hanno affinato il gusto del bello e una dipendenza assoluta da certi incantesimi ma che lo hanno anche fatto sentire piccolo, incapace di scalare anche la più piccola delle sue vette interiori. È anche per questo che Giò è allergico alla promozione e affronta con la timidezza di un ipocondriaco questa carta. Vive in un mondo autistico, dentro la sua musica, felice di farla, sorpreso di suonarla ma incapace di venderla, talvolta di amarla del tutto. L'etichetta per la quale registra, la Elefant, è spagnola: lo paga, gli mette a disposizione ottimi studi e i collaboratori di cui ha bisogno, stampa vinile e cd e ha anche sbocchi internazionali persino in Giappone. Ma Giò è ombroso, poetico, spudoratamente leopardiano (come confessa nelle note di copertina citando due passi dai Canti "Primo Amore" e "Ad Angelo Mai"). La sua musa vive in uno stato di disillusione. Giò si ritiene spesso arrivato al capolinea. Con autolesionistico understatement dice di essere il portavoce di una musica che oggi non ha senso. Tanto è vero che anche la scorsa estate, anziché procurarsi qualche data, ha preferito rivestire i panni dell'appassionato ed è volato come sempre al Primavera Sound di Barcellona non per assistere al concerto dei Radiohead ma per vedere, sue parole testuali "probabilmente per l'unica volta Brian Wilson rifare Pet Sounds". Il ragazzo è di una modestia disarmante, un crepuscolare, un introverso cronico.
Per chi non lo conoscesse affatto ecco alcune coordinate: il disco si intitola "This Life Denied Me Your Love" ed è il quarto lavoro dell'artista leccese, il sequel lineare del precedente "In The Morning We'll Meet". L'uscita è stata preceduta dalla pubblicazione di tre 7" in vinile realizzati con la collaborazione di Laetitia Sadier degli Stereolab. Il disco, come il precedente, trae ispirazione dalle colonne sonore di Piero Piccioni e Piero Umiliani. Gli arrangiamenti planano con un suono d'archi che sembra avere l'apertura alare e la leggerezza di Burt Bacharach, i colori solarizzati di Brian Wilson, l'assenza di gravità degli High Llamas, la stralunatezza di Jim O' Rourke.
Lo stile di Giorgio Tuma, presumo con una punta di autocompiacimento romantico, è stato a lungo praticamente ignorato in Italia, mentre ora sta prendendo piede in Francia e in Svezia dove sono amate band come i suoi compagni d'etichetta Casa Azul o i Camera Obscura, ma soprattutto gli Orwell, i Jack and The', i Testbild!, gli Ocean Tango con Louis Philippe, uno dei geni musicali più vicini a Giorgio. Vi risparmio la descrizione dei singoli brani, il titolo del disco fa capire che si tratta almeno nel tema generale di una specie di concept-album. "This Life Denied Me Your Love" ci parla di un amore mancante. Di un'assenza. Forse di una perdita. Non ci dice esattamente quale. Può rimandare a quel senso di torpore e di vuoto che scende come una nebbia nell'anima quando finisce una relazione, ma può riferirsi a un affetto che non abbiamo mai conosciuto, a un calore che continua a farci sentire freddo anche quando il corpo suda.
Le sue canzoni galleggiano su un pop psichedelico, celestiale, mosso da una continua risacca elettronica che naviga in un cosmo pieno di stelle, tra Nick Drake, Sondre Lerche e Sufjan Stevens. Le apnee cupe dei Radiohead cercano il respiro luminoso e sofisticato di Todd Rundgren. Le canzoni sono il risultato di lunghe notti oscure, di visioni introspettive in cui si sono sempre lasciate aperte le porte dei sogni. Sono fiabe magiche, traboccanti eleganza, piene di bellissime fragilità, che sono lo specchio di un cuore che bisogna liberare dalla ragnatela delle sue piccole, travagliate torture per poter ammirare la grazia infinita di questo giovane favoloso!
23/09/2016