Il titolo nasce da un proverbio islandese, sundur og saman, che tradotto in italiano significa separati e insieme. L’album, infatti, parte dal dualismo creativo delle due ragazze per trovare infine quella magia dell’incontro e dell’interazione culturale.
Dopo l’esordio su Morr Music a base di bedroom-folk e il pregevole, ma non definito, passo avanti nella folktronica del successivo “Twosomeness”, le due ragazze islandesi si erano divise, esplorando universi sonori non affini ma alfine paralleli.
Elettro-pop e band di grido per Jófríður (Samaris), studi classici e pianoforte per Ásthildur, infine un nuovo incontro, documentato in soli due giorni di registrazioni, con l’aiuto del padre Áki Ásgeirsson, abile cerimoniere delle scarne intrusioni ritmiche di “Sundur”.
Il risultato è affascinante e inquietante: le coordinate folk dell’esordio, che avevano fatto sperare in una versione ghostly delle First Aid Kid, sono quasi scomparse, immerse in una dimensione lirica che prende spunto da malinconiche e uggiose partiture di piano, le quali danno spazio ad armonie sognanti e a volte dissonanti, raggiungendo un equilibrio e una maturità sorprendente.
L’iniziale ”Jósa & Lotta” è il prototipo perfetto della ricerca sonora che anima il progetto che, pur se ancora contaminato dalla collaborazione di Alex Sommers (Sigur Rós) nel precedente album, mette in luce un’autonomia creativa che riscatta un passato artistico gradevole ma non incisivo.
Il fascino lirico è più tangibile e concreto, nonostante la dimenzione sonora resti evanescente e onirica, con incanti chamber-pop alla Penguin Cafè Orchestra (“53”), fragili scampoli folk autoctoni (“Skammdegi”) e inattese scariche di adrenalina post-malinconia (“Wax”).
L’elettronica fa capolino in “Spider Lights” senza turbarne l’eleganza, poi agita vestali vintage e analogiche insinuando maliziose litanie (“Forest”), per infine incorniciare landscape sonori corposi e quasi mistici profumati di harmonium (“Babies”), ma senza mai perdere di vista quell’austera e affascinante bellezza che nasce dal mistero e dalla natura arcaica del suono.
“Sundur” potra apparire poco innovativo o avventuroso ai famelici detrattori della musica moderna, ma dietro il fascino scheletrico di brani come “Fuglar” e “Orange” si nasconde una dimensione espressiva intensa, che nell’apocalittico finale di “Weeks” apre la strade a interessanti sviluppi sonori.
Un album dove l’apparente immobilità e fragilità della musica si traducono in una potente bellezza.
(20/10/2016)