PJ Harvey

The Hope Six Demolition Project

2016 (Island)
alt-rock, songwriter

Those are the children's cries from the dark
These are the words written under the arch
Scratched in the wall in biro pen
This is how the world will end
("The Ministry of Defence")

"The Hope Six Demolition Project", naturale prosecuzione del celebratissimo "Let England Shake" (focalizzato sugli orrori della Prima Guerra Mondiale), è il secondo capitolo della crociata antigovernativa condotta dalla nuova PJ Harvey.
Ma partiamo dalle premesse, anzitutto dal processo compositivo, avvenuto in maniera singolare, nel corso di session pubbliche svoltesi a Londra all'interno di un'installazione presso la Sommerset House, dove i fan, previo acquisto del biglietto d'ingresso, potevano assistere per quarantacinque minuti alle prove da dietro una parete a vetro. I più fortunati avranno potuto così godere in diretta alla genesi di qualcuno dei brani che ora tutti possiamo ascoltare in maniera compiuta e definitiva.

Riguardo i temi affrontati, l'album è il risultato di appunti di viaggio elaborati dall'autrice fra territori di guerra (Kosovo, Afghanistan) e la città di Washington, viaggi dai quali è stato già tratto il libro di poesie "The Hollow of the Hand", nato da una collaborazione con il fotografo Seamus Murphy.
Proprio in quel di Washington venne varato il progetto di demolizione "Hope VI" (da qui il titolo del disco), attraverso il quale si è provveduto alla riqualificazione di quartieri popolari tramite l'abbattimento di vecchi fabbricati e lo spostamento delle famiglie poco abbienti che li occupavano. Dal disagio che ne è conseguito prende spunto il testo di "The Community of Hope", che apre la tracklist fondendo una rotonda musicalità, oserei dire alt-pop, con una scrittura tagliente che si scaglia contro le istituzioni, accusate di porre la speculazione al centro dei propri progetti, privilegiando il consumismo sfrenato (le catene Wal Mart citate alla fine della canzone) a dispetto dei reali bisogni della popolazione.

Here's the Hope Six Demolition Project
Stretching down to Benning Road
A well-known "pathway of death"
At least that's what I'm told
And here's the one sit-down restaurant
In Ward Seven, nice
OK, now this is just drug town, just zombies
But that's just life
("The Community of Hope")

L'autrice gioca su questo contrasto molto più che in passato, cercando spesso l'accostamento fra i ritmi gioiosi (questo è un lavoro musicalmente piuttosto colorato, per molti versi ricorda la luminosità di "Stories From the City, Stories From the Sea") e la drammaticità delle scene raccontate.
Ma i rigogliosi arrangiamenti (meravigliosi i sax che punteggiano e danno incredibile vitalità a molti frangenti), la perfezione formale delle registrazioni, la straordinaria qualità dei musicisti coinvolti non riescono a sopperire alla perdita del senso di urgenza che trasudava dalle prime pubblicazioni della cantautrice del Dorset, quelle più selvagge, anticonformiste e non di rado controverse, sulle quali si aprivano lunghi dibattiti. Oggi lo scenario diviene più asettico, distaccato, e di brividi veri lungo la schiena ne scorrono pochini, magari quando si opta per il ritorno al minimalismo che caratterizza uno dei momenti migliori: "The Ministry of Defence".

Non che manchino episodi oggettivamente riusciti, come nell'esaltante sequenza dai ritmi sostenuti "Medicinals"/"The Ministry of Social Affairs", ma in ben cinque anni di scrittura (questo il non breve lasso temporale trascorso da "Let England Shake") ci saremmo attesi qualcosa di più spiazzante e imprevedibile. È comunque motivo d'orgoglio nazionale scovare fra i credits di alcune tracce i nomi dei "nostri" Enrico Gabrielli (sarebbe ora che il suo genio venisse riconosciuto anche oltre gli angusti confini italici) e Alessandro "Asso" Stefana, i quali non sfigurano accanto ad altri collaboratori di grandissimo spessore quali Linton Kwesi Johnson, Terry Edwards, Mike Smith, James Johnston e Alain Johannes, oltre ai consueti John Parish, Flood e Mick Harvey.
Siamo al cospetto di un progetto che completa la migrazione della poetica di Polly Jean dall'analisi di mondi interiori (soprattutto femminili), avvenuta nei primi album, alla critica socio-politica, preferita nei tempi recenti. Il tutto assemblato attraverso un crogiolo di stili che spazia dalle strutture simil-blues di "Chain of Keys" agli aromi gospel di "River Anacostia", fino alle influenze world sparse un po' ovunque, miscelando immagini di guerra ("A Line in the Sand" è densa di riferimenti ai conflitti odierni, l'incalzante "The Wheel" narra di migliaia di bambini scomparsi), fotogrammi di povertà rurale e racconti metropolitani.
Enough is enough
A line in the sand
Seven or eight thousand people
Killed by hand
They stepped off the edge
They did not step back
If we have not learnt
By now
Then we're a sham
("A Line in the Sand")

"Dollar, Dollar" è l'istantanea finale di questo reportage: bimbi che chiedono qualche moneta inseguendo la macchina che scarrozza la turista Polly Jean lungo territori tutt'altro che raccomandabili. Ecco, sono in molti a leggere fra le righe di questa faccenda una mezza paraculata: andare in giro per luoghi di guerra con le guardie del corpo, o visitare quartieri popolari osservandoli dai finestrini chiusi di un taxi, per catturare spunti sui quali scrivere, è un qualcosa che lascia discutere. Sia sempre benvenuta qualsiasi forma di protest song densa di coscienza sociale, ma rischia di apparire più sincera quando arriva dal di dentro (Kendrick Lamar?) piuttosto che da un passante di riguardo, intento a osservare dallo specchietto retrovisore mentre preferisce allontanarsi.

La Polly Jean targata 2016 la butta sulla critica socio-politica, ma perde gran parte dell'irruenza comunicativa dei primi dischi, elimina quasi ogni forma di "sporcizia" sonora per dare un'immagine più patinata alla propria musica, realizza un progetto senz'altro interessante e compiuto, ma nel quale lo spessore delle composizioni non riesce a raggiungere il livello delle opere migliori del passato.
Non che ci aspettassimo di trovare fra questi solchi le nuove "Meet Ze Monsta" (dal masterpiece che la lanciò definitivamente nel 1995, "To Bring You My Love") o "Who The Fuck" (dall'ultimo step della PJ real rocker, il lo-fi "Uh Huh Her" del 2004)... uhm... ma sì... forse, sotto sotto, un pochino lo speravamo ancora...
A revolving wheel of metal chairs
Hung on chains, squealing
Four little children flying out
A blind man sings in Arabic

Hey little children don't disappear
- I heard it was 28,000 -
Lost upon a revolving wheel
 
Now you see them, now you don't
Children vanish 'hind vehicle
Now you see them, now you don't
Faces, limbs, a bouncing skull

Hey little children don't disappear
- I heard it was 28,000 -
All that's left after a year
- I heard it was 28,000 -
A faded face, the trace of an ear

("The Wheel")

20/04/2016

Tracklist

  1. The Community Of Hope
  2. The Ministry Of Defence
  3. A Line In The Sand
  4. Chain Of Keys
  5. River Anacostia
  6. Near The Memorials To Vietnam And Lincoln
  7. The Orange Monkey
  8. Medicinals
  9. The Ministry Of Social Affairs
  10. The Wheel
  11. Dollar, Dollar






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