Negli ultimi anni il britannico Wil Bolton è stato uno dei musicisti elettro-acustici più prolifici; una serie di ben dodici album che, partendo dall'esordio "Time Lapse" (2010), giunge fino ai più recenti lavori del 2015, la triade
"Inscriptions", "Marram" e "Green & Gold".
Sempre attento nel mantenere il difficile equilibrio tra elettronica e strumentazione acustica, Bolton, col nuovo "February Dawn", approfondisce ed esalta ancor di più le potenzialità dell'unione tra le due strumentazioni, usandole stavolta in un contesto freddo e invernale.
L'alba di febbraio è quindi la descrizione di un paesaggio gelido e inospitale, dipinto con sottofondi e riverberi, droni, morbidi ricami di chitarra acustica, rintocchi di basso elettrico e registrazioni ambientali. Se l'accostamento col duo norvegese
Pjusk appare abbastanza evidente, non si può non segnalare quanto Bolton riesca sempre - tramite complesse tessiture acustiche - a mantenere una sua rigorosa personalità.
Nei suoi momenti più evocativi, Bolton compie l'impresa di coniugare i paesaggi più cupi dei brani acustici dei
Labradford - come ad esempio l'inquieta "Weatherboard" - con l'elettronica contemporanea; "Bleaching Ground" e "Coastal Glow" sono abbastanza esemplificativi di questa unione. L'aspetto più romantico si ritrova in quei brani dove riverberi e droni persistenti danno una consistenza fragile e granulosa ("Dead Branches" e "Dot To Dot"), mentre inquietudini elettroniche dominano nell'episodio più autenticamente ambient-drone di "Blue Field Balcony".
Vie di mezzo tra la fragilità e la durezza si ritrovano nell'onirico splendore della
title track, che mette in unico calderone
Rafael Anton Irisarri,
Pjusk, il post-rock elettronico dei
Labradford e dei
Seefeel. Di fronte a tanta cupa grandezza il morbido finale di "Honeywood" appare come una sorta di riconciliazione. L'alba di febbraio non è poi tanto gelida.