Group Doueh & Cheveu

Dakhla Sahara Session

2017 (Born Bad)
fourth world rock music

Parliamoci chiaro, la spinta rivoluzionaria della musica rock – dove, semplificando brutalmente, per rock si intende quel tipo di sonorità energiche prodotte prevalentemente usando le chitarre elettriche – è chiaramente in crisi. Non che nel panorama odierno della musica chitarristica manchino proposte valide – per conferme rivolgersi alle recenti prove di Black Angels e Cloud Nothings  - mancano tuttavia due cose fondamentali: la capacità di provocare terremoti culturali e la carica innovatrice, ormai appannaggio di pochi illuminati producer che di chitarre ne avranno sicuramente ascoltate parecchie, ma per una precisa scelta estetica non ne hanno mai comprata una. Lasciando da parte la scivolosa questione della carenza di innovazione, che colpisce in modo trasversale e fisiologico anche altri stili e generi, il vero vulnus del rock degli ultimi lustri è l’incapacità di profondere in un linguaggio formale abbondantemente codificato significati in grado di risultare ancora potenti. Mancano, in poche parole, il tremore dell’anima e il fuoco che brucia la mente. Manca quello che ogni rock band dovrebbe fare per essere definita tale, a prescindere dal ribellismo di scena, dal maledettismo e dalle pose da indie-rocker duri e puri. Come in una leggenda malinke, suonare una chitarra dovrebbe condurre ben oltre. Lasciare che quello strumento assorba parte di te, del tuo sangue, del tuo soffio vitale.

Se quella leggenda ha ragione, allora il destino del rock non è in mano a nessuna band proveniente da New York o Londra, bensì a tribù di nomadi, guerriglieri e mistici delle regioni sahariane che già da qualche tempo stanno impiantando nella tradizione musicale indigena, fatta di canti devozionali e storie mitiche, il seme dell’elettricità, lo shock che fu di Chuck Berry e Link Wray. Specularmente, rivolgendola dall’altro lato, ossia dalla prospettiva di chi ormai dalle chitarre ha già sentito tutto e il contrario di tutto, gli stilemi anglo-americani del caro vecchio rock appaiono rinvigoriti per merito di un processo di osmosi che gli sciacalli dell’invasione straniera, dei muri contro i flussi migratori e della difesa dell’identità nazionale faranno sempre finta di non capire. Se c’è un modo per rinforzare la propria identità, quel modo è esattamente mandarla in collisione con le altre.  Quando un linguaggio è in crisi, vuol dire che si è arroccato sui propri modelli, li ha spolpati fino a svilirli. Da questo impasse si può uscire solo impiantando geni esogeni in quelle ormai logore strutture, accettando l’incertezza del contagio, il rischio di scoprirsi trasformati. E ancora vivi.

È questa la strada che hanno tentato gli Cheveu, imprimendo un indizio di futuro nelle loro chitarre. Partito da sonorità shitgaze e virando via via verso un garage-synth-punk sempre più mutogeno come nel gioiellino “Bum” del 2014, il trio francese a gennaio 2016 ha imbarcato la propria strumentazione su un volo per Dakhla, Sahara Occidentale, una lingua di cemento e asfalto con dentro novantasettemila anime situata tra il deserto e il mare. Lì, nel sud del Marocco, Étienne Nicolas, Olivier Demeaux e David Lemoine hanno trascorso quindici giorni ospiti del chitarrista Selmou Baamar e della sua famiglia. Che non è soltanto una famiglia ma prima di tutto una delle principali band della scena musicale saharawi, sicuramente una delle più ricettive a raccogliere le suggestioni del rock occidentale elettrificando il tidinit – una sorta di liuto a quattro corde caratteristico della tradizione dei nomadi Beni Hassan – e contestualmente accogliendo in formazione chitarre elettriche e sintetizzatori.
Fulminato dall’icona di Jimi Hendrix palesatasi in Tv alla stregua di una teofania, Selmou da più di tre decenni gira il Nord Africa suonando insieme alla moglie, la cantante Halima Jakani. Registrazioni carbonare di matrimoni e feste religiose sono tutto quello che hanno - per modo di dire - inciso prima che Hisham Mayet della Sublime Frequencies li portasse all’attenzione dell’industria discografica occidentale. Oggi il Group Doueh è un vero e proprio collettivo, completato da El Waar - figlio dei due coniugi - al synth, e dai percussionisti Arbinha Salam al Tbal (un tamburo cilindrico di origine tunisina) e Omar Laabadi.

Durante le sessioni di lavoro, gli Cheveu e il Group Doueh si sono relazionati come se fossero due animali che prima si osservano, poi si annusano e infine si accoppiano. I francesi hanno iniziato per primi a suonare brani dal loro repertorio, mentre i musicisti marocchini ascoltavano attentamente seduti a terra - guerrieri in riposo a gambe incrociate - con gli strumenti adagiati al suolo.
Successivamente è toccato ai transalpini ascoltare in religioso silenzio gli inni d’amore e i canti a Dio intonati dalla famiglia Baamar.
Il momento decisivo, lo scoccare del cortocircuito culturale tra musiche totalmente differenti eppure così intimamente compatibili, è stato quando gli Cheveu hanno provato ad arrangiare in modalità punk-rock alcuni brani del repertorio del Group Doueh, scrollandosi di dosso il timore di poter profanare quell'antica tradizione. Ascoltando il materiale registrato che gli Cheveu hanno riportato a Parigi al termine dei quindici giorni, Hisham Mayet ha esclamato quattro parole rivelatorie: "Alan Vega nella sabbia!".
Non c’è definizione più icastica per rappresentare gli spasmi compulsivi di “Moto 2 Places” - che spedisce i Suicide del secondo album a raccogliere ritmi beduini in giro per il Nord Africa - e della formidabile “Je penche”,  la “Ghost Rider” di quelli che corrono davvero, attraverso il deserto, sfidando la morte ma celebrando la vita.  “Bord de mer”, col suo beat etno-electro-funk tra house clubbing e danza del ventre, non sfigurerebbe in una compilation DFA. Al contrario, “Azawan” è puro Detroit proto-punk propulso verso le dune del Sahara o lo Zambia degli Witch.

Come il loro più illustre connazionale Paul Gauguin andò a Tahiti portando con sé il bagaglio iconografico della pittura europea, tramite il cui filtro ritrasse le bellissime donne maori e i culti polinesiani, allo stesso modo gli Cheveu hanno portato in Marocco reperti stilistici del proprio mondo - il punk-funk, le sonorità elettroniche e finanche l’hip-hop astratto alla Why di “Ach'Had Lak Ya Khay” - piegandoli alle esigenze espressive della tradizione musicale saharawi. Il risultato, concettualmente, è vicino alla Fourth World Music di Jon Hassell, che alla fine degli anni Settanta  mandò in corto circuito l’elettronica avanzata del “primo mondo” con le strutture ritmico-melodiche della musica del “terzo mondo”, coniando di fatto un genere musicale ibrido, elusivo di qualsiasi etichetta convenzionale, che contestava le abituali categorie culturali su cui poggia il sapere occidentale giustapponendo frammenti musicali estrapolati da realtà culturali anni luce distanti. In “Dakhla Sahara Session” i synth che emulano il suono di liuti autoctoni e flauti entici (la magica, lunga coda di “Charaa”) afferiscono alla medesima estetica di contraffazione quartomondista, nondimeno la specificità cruciale della formula venuta fuori dall'icontro tra Cheveu e Group Doueh risiede in un impianto formale dichiaratamente rock. È Fourth World Music ma fatta con  le chitarre elettriche.

Non sempre è necessario creare suoni nuovi per rivitalizzare il rock, ce ne sono miliardi in giro per il mondo. Basta legarli insieme ai soliti tre accordi, a quel vecchio riff, a quell’assolo simile a molti altri. E una volta trovato l’incastro più spiazzante, traumatico, eccitante, accorgersi che il futuro è già qui. In uno dei mondi possibili che azzerano la distanza tra Parigi e Dakhla.

18/12/2017

Tracklist

  1. Moto 2 places
  2. Bord de mer
  3. Tout Droit
  4. Skit, Pt.1
  5. Azawan
  6. Charaa
  7. Ach'had Lak Ya Khay
  8. Je penche
  9. Hamadi
  10. Skit, Pt.2