Si nota subito che "Rosewood Almanac", nel bene e nel male, è l'album della "grande occasione" per Will Stratton, finora autore di culto della scena cantautorale e trovatosi, dopo il capolavoro "Gray Lodge Wisdom", scritto durante e dopo una grave malattia, accasato presso la Bella Union. Se "Light Blue" sembra infatti aprirsi secondo le previste coordinate di fingerpicking Drake-iano che l'avevano consacrato sotto la Talitres, improvvisamente il brano sboccia in un dinamismo abbacinante, alla Wilco dei bei tempi.
Ma anche i brani senza la band hanno un deciso impulso confidenziale ("I See You" potrebbe piacere ai fan di Damien Rice; "Vanishing Class" è dalle parti del folk romantico Bartlett-iano, con quegli archi alla Nico Muhly), un carattere estroverso che è abbastanza nuovo per Stratton e che rende "Rosewood Almanac" da un lato più convenzionale, dall'altro una mutazione artistica da incoraggiare, più che da sopprimere.
Anche "Manzanita", secondo estratto dal disco, sembra una rivisitazione in chiave Stratton-iana (quindi all'insegna della delicatezza e dell'intelligenza) dell'indie-folk feel-good che ha spopolato tra serie tv e spot pubblicitari - c'è anche l'assolo di sax. Su questo piano anche il primo singolo, "Some Ride", con la sua mirabile semplicità di un giovane Cat Stevens, certifica la giusta ambizione di rappresentare il nuovo nome della "classe media in crisi" del cantautorato contemporaneo.
Dall'altro lato, risulta difficile ritrovare le aperture liriche, il sottinteso messaggio di riscoperta del mondo di "Gray Lodge Wisdom", che appare un'opera disinteressata e auto-esauriente, e per questo forse più riuscita, al confronto di questo "Rosewood Almanac", un grande biglietto da visita, ma ancora a metà del guado sul percorso artistico di Will.
17/05/2017