Un breve incontro, anzi, un ricongiungimento, quello tra i due sperimentatori italiani Stefano Pilia e Alberto Boccardi: l’uno di stanza a Bologna (ma sempre in giro fra Afterhours, Massimo Volume, In Zaire e Il Sogno del Marinaio), l’altro ora con base al Cairo, così come l’etichetta ospitante Nashazphone, nel cui catalogo sono comparsi anche Sun City Girls, Skullflower e Alvarius B.
E allo stesso modo, nel tema titolare e iconografico, si divide questo primo Lp collaborativo: se infatti l’album porta il nome di un’antica divinità egizia – protettrice del focolare domestico e della fertilità – l’immagine di copertina fa invece riferimento a un’usanza del cristianesimo delle origini: in epoca pre-illuminista, per volontà del papato, gli scheletri dei primi martiri ritrovati nelle catacombe romane vennero intarsiati con ogni sorta di pietre preziose, e così trasformati in reliquie di grande valore. Un’approfondita ricerca a opera dello studioso Paul Koudounaris ha riportato alla luce molti di questi macabri esemplari, conservati nelle cripte di diverse chiese d’area mitteleuropea.
Non sono che vaghe suggestioni, laddove l’intento di Boccardi e Pilia è unicamente quello di trovare nuove intersezioni possibili fra input elettronici e astrazione strumentale. Non essendo un territorio del tutto inesplorato, naturalmente, il pregio risiede anzitutto nella qualità dell’esecuzione e nell’ascolto reciproco, e in questo senso il lato A è di un nitore e di una precisione particolarmente apprezzabili: alla chitarra Pilia si destreggia abilmente tra archetto, riverberi ariosi ed effetti di tremolo, mentre Boccardi adopera percussioni classiche e digitali con tratto leggero e misurato, dallo scroscio di piatti sino al più fioco battito cardiaco. Una ruvida distorsione che si espande e si ritrae nel silenzio caratterizza la seconda sequenza, dove i pattern elettronici si fanno ancor più minimali e sotterranei.
In “Dayira”, invece, le modificazioni elettroniche invadono il dominio amplificato e lo sovvertono, disgregando in particelle caotiche il distante e lamentoso sferragliare della sei corde. È qui che emerge in modo ancor più evidente la non comune capacità del duo di plasmare una musica in grado di suggerire un afflato “melodico” anche nelle sue pieghe più sfuggenti. Tra le mutevoli ambientazioni di “Bastet” non si percepisce alcun paesaggio che non sia interiore: un chiaroscuro emozionale che elude le forme della realtà esteriore e va direttamente all’essenza della sound art.
Nell’incertezza del free form, paradossalmente, Boccardi e Pilia trovano la loro anima più sensibile e luminosa, e solo chi ha pieno controllo dei propri mezzi espressivi può raggiungere risultati così convincenti – un livello di coscienza che rimette in discussione anche il termine “sperimentale”.
(20/03/2018)